«Oggi i grandi animali non fanno più paura a nessuno. Il grande leone della savana, che un tempo terrorizzava l’uomo, oggi ci guarda mansueto dietro le sbarre di un giardino zoologico. Di cosa abbiamo paura? Dei virus: microrganismi che non riusciamo neanche a vedere. Allora noi dobbiamo continuare a scinderci sempre di più e creare migliaia di microscopici partiti comunisti, indistinguibili l’uno dall’altro, che cambiano continuamente nome e forma, nome e forma, nome e forma». Era il 2009 e, nel suo Recital, Corrado Guzzanti metteva in bocca a Bertinotti queste profetiche parole. Profetiche fino a un certo punto, in realtà, visto che già allora in quanto a scontri interni, divisioni e tentativi (falliti) di riappacificazione il centrosinistra non si era certo risparmiato. Nell’ultimo decennio, semmai, le diverse anime che lo compongono sembrano aver fatto tesoro della lezione del finto Bertinotti arrivando a sperimentare scissioni che si avvicinano sempre di più a quella dell’atomo.
In principio fu il Psi
È la sera del 15 agosto 1892 quando a Genova vede la luce il primo partito di massa della storia italiana. Al neonato Partito dei lavoratori italiani verrà prima aggiunto l’aggettivo “socialista” e poi, nel 1895, tolta la specificazione “dei lavoratori”, stabilizzandolo sul più maneggevole e a noi familiare Psi e introducendo uno dei grandi tratti distintivi dell’intera parabola del centrosinistra italiano: la passione per i cambi di denominazione. A voler ben vedere, la madre di tutte le scissioni risale addirittura al 1912, quando un gruppo di “gradualisti” capeggiato da Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati viene esautorato in seguito alla vittoria della corrente massimalista al Congresso di Reggio Emilia: i fuoriusciti daranno vita al Partito socialista riformista italiano (Psri) che, dopo aver conseguito un discreto risultato alle elezioni dell’anno successivo, nel 1926 verrà bandito – al pari di tutte le altre formazioni d’opposizione – dalle cosiddette “leggi fascistissime”.
Nell’immaginario collettivo è però quella consumatasi a Livorno la prima grande frattura in seno alla sinistra. Come nove anni prima, quando il pomo della discordia era stata la guerra in Libia, anche la scissione del 1921 scaturisce da una contrapposizione su temi di politica estera. O meglio: in ballo in questo caso c’è collocazione internazionale del partito. I “comunisti puri” di Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci abbandonano il Teatro Goldoni e si riuniscono al San Marco, dove fondano Partito comunista d’Italia (PCd’I). L’obiettivo è adeguarsi ai 21 punti dell’Internazionale di Lenin, come testimonia la scelta del nome: «Qualunque partito voglia appartenere all’Internazionale comunista – recita infatti il 16° punto – deve portare il nome “Partito comunista del paese”». Solo nel ’43, con lo scioglimento dell’Internazionale voluto dall’Unione sovietica per rassicurare gli Alleati, la denominazione verrà modificata in Pci.
Non è finita qui, però: il 3 ottobre 1922, pochi giorni prima della marcia su Roma e con il Paese in piena emergenza, viene espulsa dal Psi anche la corrente riformista di Filippo Turati, reo di aver violato il divieto di collaborazione con i partiti borghesi partecipando alle consultazioni per la formazione del governo. Lo storico fondatore del partito abbandona quindi la sua creatura per dar vita al Partito socialista unitario (Psu), con segretario Giacomo Matteotti. Una frattura, questa, destinata almeno inizialmente a sanarsi: nel 1930, infatti, in occasione del XXI Congresso socialista, tenutosi in esilio a Parigi, il partito di Turati e Treves – nel frattempo ridenominato Psuli (Partito socialista unitario dei lavoratori italiani) – si riunificherà con il Psi di Pietro Nenni, che di lì a poco cambierà nuovamente nome in Psiup (le ultime due lettere stanno per “unità proletaria”).
Il dopoguerra
Il ritorno alla vita democratica porta con sé una rinnovata esigenza di unità a sinistra, nella speranza – che si dimostrerà vana – di sconfiggere la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi. Per un’alleanza che nasce c’è un partito che si spacca: a farne le spese è proprio il Psiup che, di fronte alla prospettiva di un fronte comune con i comunisti di Togliatti in vista delle cruciali elezioni dell’anno successivo, registra nel 1947 la storica scissione di Palazzo Barberini. L’ala destra del partito, guidata dal futuro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, torna alla vecchia denominazione Psli per poi dar vita due anni dopo al Partito socialdemocratico (Psdi) che sopravviverà – con alterne vicende, che vi risparmieremo – fino al ’98. Quello tra Psi e Psdi sarà un rapporto burrascoso che farà la fortuna soprattutto di notai e grafici (ricordate il martellante «nome e forma» ripetuto dal Bertinotti-Guzzanti?): tra partiti socialisti unitari e unificati saranno molti i tentativi di ricomporre la rottura. Tutti destinati a durare al massimo il tempo di una legislatura.
Leggermente meno turbolenta l’esperienza del Pci, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino: l’unica scissione degna di nota a incrinare il monolite comunista è quella che nel 1969 vede la radiazione di Rossana Rossanda, Luigi Pintor e altri redattori dell’allora mensile il Manifesto, con l’accusa di “frazionismo”. Una rottura, causata in particolare dalle divergenze in merito all’intervento sovietico a Praga, più dolorosa dal punto di vista umano che da quello elettorale: il piccolo gruppo, che nel 1974 si unirà al Partito di unità proletaria (Pdup, nato a sua volta dalla fusione di Nuovo Psiup e Alternativa Socialista) non supererà mai l’1,5% dei consensi per poi confluire nuovamente nel Pci dieci anni più tardi. Legata a quest’ultimo movimento è anche l’esperienza di Democrazia proletaria: nata come cartello elettorale e poi strutturatasi in partito, tenterà negli anni difficili del terrorismo di intercettare almeno parte del malcontento a sinistra del Pci, altrimenti indirizzato verso movimenti extra-parlamentari come Lotta continua, Avanguardia operaia o Potere operaio.
Il crollo del Muro e Tangentopoli
Poi nel giro di tre anni, tra il 1989 e il ’92, la politica italiana viene investita da un processo di rinnovamento radicale. Il crollo del Muro di Berlino con la crisi del modello sovietico da una parte e l’esplosione dell’inchiesta “Mani Pulite” dall’altra portano al rovesciamento dell’ordine che per mezzo secolo aveva retto le sorti del Paese. Quale occasione migliore per sperimentare nuove scissioni? La prima avviene nell’inverno del 1991: l’ultimo congresso del Pci, a Rimini, vede trionfare la mozione del segretario Achille Occhetto che, come già anticipato due anni prima alla Bolognina, fonda il Partito democratico della sinistra (Pds, Ds a partire dal 1998). In aperto contrasto con questa scelta abbandonano il partito Armando Cossutta, Fausto Bertinotti, Pietro Ingrao e altri “nostalgici” che a dicembre daranno vita a Rifondazione comunista, nella quale confluirà anche l’ormai dissolta Democrazia proletaria.
Nel frattempo lo scandalo di Tangentopoli provoca una vera e propria “diaspora” nelle fila del Psi. Dallo scioglimento del secolare partito, nel novembre ’94, nascono i Socialisti italiani di Enrico Boselli, il Partito socialista riformista di Fabrizio Cicchitto e la Federazione laburista di Valdo Spini, senza contare gli esponenti del partito che confluiscono direttamente nel Pds o nella neonata Forza Italia. Nel 2007 sarà proprio Boselli, nel frattempo divenuto segretario dei Socialisti democratici italiani (Sdi) a ricostituire – non senza polemiche sull’utilizzo del nome e del simbolo – il Psi, tuttora presente in Parlamento con una sparuta rappresentanza (è proprio grazie a un accordo con il senatore socialista Riccardo Nencini che Matteo Renzi ha potuto costituire il gruppo di Italia viva anche a Palazzo Madama). In mezzo c’è tempo per le esperienze elettorali della Rosa nel pugno, di Sinistra e libertà e di Insieme.
La nebulosa a sinistra del Pd e Italia viva
Fine della storia? Neanche per sogno. Dalle divisioni interne in merito alla sfiducia al primo governo Prodi si spaccano nuovamente gli eredi del Pci: nel 1998 Armando Cossutta e Oliviero Diliberto guidano la fronda interna a Rifondazione, contribuendo con il neonato Partito dei comunisti italiani (PdCI) alla formazione dell’esecutivo D’Alema. Quello che succede da questo momento in poi a sinistra del Partito democratico (nato nel 2007 dalla fusione di Ds e Margherita, a sua volta contenitore di liste riformiste di centro) sarebbe in grado di mettere a dura prova i nervi e la memoria di chiunque. Dal Pd fuoriescono nell’ordine Possibile, Sinistra italiana e Articolo1-Mdp, che si riuniscono solo momentaneamente sotto il simbolo di LeU. Da Rifondazione si stacca invece Sel, che poi confluirà proprio in Sinistra italiana, e dal PdCI fuoriesce Marco Rizzo con il suo Partito comunista. Nel frattempo nascono e muoiono – giusto il tempo di incassare una sconfitta alle urne – Sinistra arcobaleno, Rivoluzione civile, L’altra Europa con Tsipras e da ultimo Potere al popolo (che riesce nell’impresa di scindersi ancor prima di nascere ufficialmente).
E arriviamo così ai fatti delle ultime settimane. I nostalgici più intransigenti storceranno la bocca a vedere Italia viva, il partito fondato il 18 settembre scorso da Matteo Renzi, inserita nel solco delle scissioni a sinistra ma tant’è: la nuova formazione lanciata dall’ex presidente del Consiglio ed ex segretario del Pd è l’ennesima costola che si stacca dalla Ditta, la seconda a farlo “da destra” dopo l’esperienza – tutt’altro che indimenticabile – dell’Alleanza per l’Italia (Api) di Francesco Rutelli nel 2011. E, per quanto non abbia tutti torti Paolo Franchi a dire sul Corriere che quest’ultimo addio – tanto fragoroso quanto annunciato – «con questa storia molto novecentesca c’entra poco o nulla», all’elettore di (centro)sinistra giunto coraggiosamente al termine di questa poco edificante sfilza di separazioni e tradimenti, veti incrociati e lotte intestine, non farà certo piacere la visione dello schema qui sotto. L’unica speranza, per lui, è che il Bertinotti di Guzzanti avesse ragione…