Non c’è nulla da fare: sembra che la storia dei mondiali di basket si diverta a sovvertire il proverbiale pronostico del “non c’è due senza tre”. In 18 edizioni a nessuna nazionale è mai riuscito il cosiddetto threepeat, l’impresa di salire per tre volte consecutive sul tetto del mondo. I primi ad accarezzare il sogno furono gli insospettabili brasiliani che, dopo i due trionfi in Cile nel 1959 e in casa quattro anni dopo a Montevideo, nel 1967 dovettero accontentarsi di un bronzo alle spalle delle due corazzate dell’est destinate a dominare la pallacanestro dei due decenni a venire, Urss e Jugoslavia. E sarà proprio quest’ultima la protagonista del secondo tentativo di triplete: non si chiama più Jugoslavia ma Serbia e Montenegro la nazionale che nel 2006 in Giappone tenta di riconfermare senza successo l’oro di 4 e 8 anni prima. A interrompere il sogno già agli ottavi la Spagna, futura campionessa del mondo. 

Le furie rosse si sono confermate acchiappasogni anche in questo mondiale cinese, avendo messo fine al terzo e ultimo tentativo (finora) di threepeat, messo in piedi – c’è bisogno di dirlo? – da Team Usa. Di quel roster che ha fatto la storia del basket iberico, salendo sul tetto del mondo dopo aver battuto la Grecia 70 a 47 nel palazzetto di Saitama, solo Marc Gasol e Rudy Fernandez sono ancora nel giro. Eppure il ciclo spagnolo sembra destinato a rinnovarsi senza soluzione di continuità, almeno a giudicare dalla cavalcata trionfale sciorinata ai recenti mondiali di Cina. Quella stravinta contro l’Argentina di un immortale Luis Scola è stata una finale atipica, tra due compagini giunte in oriente con l’etichetta di nobili decadute e forse troppo frettolosamente relegate a nazionali a fine ciclo. Soprattutto, è stata una finale che per la prima volta nella Storia ha parlato interamente spagnolo.

Non che il basket mondiale non si sia già abituato a familiarizzare con la lingua di Cevantes: la Spagna è, insieme all’Italia, il paese che può vantare più titoli europei per club ma, nei 18 anni trascorsi dall’ultimo successo nostrano (a proposito di argentini, era la Virtus Bologna di un 24enne Manu Ginóbili), gli spagnoli sono riusciti a trionfare quattro volte – due ori a testa per Barcellona e Real – e a piazzare altre 16 squadre nelle Final Four. Parla sempre più spagnolo anche la Nba: dopo la cavalcata di Marc Gasol e Serge Ibaka a Toronto, la Francia è rimasta l’unico paese europeo a poter vantare un maggior numero di giocatori in grado di vincere l’anello. Attualmente, sono 7 gli iberici impegnati nel campionato più importante al mondo, a cui si aggiungono 3 portoricani e 2 dominicani, mentre dopo l’addio dei veterani Ginóbili e Scola – strano ma vero – non ci sono argentini.

Non era mai successo che una nazionale raggiungesse la finale dei mondiali senza avere Nba in rosa. A dimostrazione che anche quello albiceleste è un movimento strutturato e maturo, capace ormai di camminare sulle proprie gambe. In Cina Campazzo, Laprovíttola e compagni si sono rivelati pronti a raccogliere la pesantissima eredità del duo di veterani che ha fatto la storia dello sport argentino: non sarà una nuova Generación Dorada come quella capace di salire – a nostre spese – sul tetto del mondo 15 anni fa ad Atene ma quanto visto sul parquet di Dongguan e poi su quello di Pechino, dove sotto i loro colpi sono cadute prima la Serbia e poi la Francia, fanno decisamente ben sperare. Nemmeno a farlo apposta, dei 12 convocati dal ct Sergio Hernández ben 7 militano nel campionato spagnolo e, dei restanti, tre giocano ancora a casa dall’altra parte dell’oceano e due, Marcos Delía e appunto Luis Scola, sono appena sbarcati in Italia: rispettivamente alla Virtus e all’Olimpia.

Luis Scola, 39 anni, è il colpo a sorpresa piazzato dall’Olimpia Milano [©Alessia Doniselli]

Se da una parte la pallacanestro continuerà per forza di cose a parlare inglese – in questo senso, al di là strapotere Usa va segnalata la sorprendente crescita dell’Australia, capace di piazzarsi appena giù dal podio agli ultimi mondiali – è innegabile che lo spagnolo stia piano piano soppiantando le lingue slave come idioma “di riserva”: la temutissima Serbia, che sta collezionando delusioni e medaglie di metalli meno pregiati, non riesce a ripetere gli exploit della corazzata jugoslava di cui è erede designata e la Russia è ormai da anni solo la pallida copia della schiacciasassi di un tempo. Basti pensare che tra il 1967 e il ’90 Jugoslavia e Urss si sfidarono nell’ultimo atto dei mondiali addirittura quattro volte e che anche le tre finali successive al crollo sovietico videro la presenza di almeno una tra Jugoslavia e Russia. Il basket in serbo-croato si chiama кошарка (košarka), in russo è decisamente più facile (баскетбол, trascrizione di basketbol) ma – a giudicare dalla piega presa dagli eventi – converrà fare pratica con lo spagnolo baloncesto.