a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
Premessa: l’economia non è una scienza in senso stretto, ma una scienza sociale. Non esistono verità assolute, ma fatti più o meno acclarati che vengono poi interpretati. Troppo spesso la narrativa economica non distingue i due piani logici, dando a fatti e interpretazioni la stessa valenza. Non ce l’hanno. D’altra parte, è impossibile parlare di economia senza inserire una componente di interpretazione dei fatti, che è forse la parte che aggiunge più valore alla discussione. È tuttavia importante distinguere i fatti di cronaca dalle interpretazioni di quei fatti: è questione di onestà intellettuale
Dopo più di un mese di quarantena, non si vede il benchè minimo barlume di luce in fondo al tunnel, e non si sa nemmeno cosa fare e dove andare per uscirne. Se degli aspetti medico-sanitari del problema si occupano egregiamente i ragazzi di Galileo, qui vorremmo discutere cosa si è fatto e cosa è ancora da fare per uscire dalla crisi economica, che si accompagna e seguirà a quella sanitaria e, soprattutto, di come è possibile fare queste cose.
Il dibattito attuale – vorremmo dire politico, ma i toni sono più da bar – si concentra attorno a due tematiche concettualmente ben distinte, ma spesso sovrapposte. Un problema è “cosa fare”, un altro è “come finanziare le misure”. I due problemi sono molto distinti e concernono ambiti differenti. Per quanto il tema del “cosa fare” sia quello con le ricadute più immediate sulla popolazione e sul sistema economico, la risposta è (relativamente) banale: serve più spesa pubblica per sostenere i redditi delle fasce di popolazione a rischio, per aiutare disoccupati e cassintegrati, per pagare le maggiori spese sanitarie, per sostenere le imprese in difficoltà, eccetera. Poi si apre tutto un universo di problemi applicativi su come implementare queste misure. Ovviamente, ma il discorso si sposta su un piano prettamente tecnico e di minor interesse.
La vera domanda che sta agitando l’Europa è invece la seconda: chi paga?
Prima di passare alle modalità di finanziamento possibili, e sulle quali politici ed economisti stanno litigando, è forse utile fare una carrellata delle misure già implementate e delle fonti di finanziamento che queste misure hanno alla base.
Apriamo la rassegna con gli strumenti già adottati: il PEPP (che bel nome!), il SURE e il sistema di prestiti alle imprese adottato dal Governo Italiano.
PEPP, sigla che sta per Pandemic Emergency Purchase Programme, è un programma di acquisto di titoli varato dalla BCE. Con il PEPP, la BCE acquisterà 750 miliardi di Euro di titoli di Paesi europei (per la stragrande maggioranza titoli di debito pubblico) da marzo a fine anno, con la possibilità di estendere il programma in caso di necessità. La BCE acquisterà questi titoli sul mercato secondario, ovvero da banche e da altri soggetti finanziari.
L’obiettivo non è sostenere il debito pubblico.
Ripetiamo: l’obiettivo non è sostenere il debito pubblico – e neanche far scendere lo spread. L’obiettivo del PEPP – così come l’obiettivo del fu Quantitative Easing, di cui il PEPP è la naturale evoluzione, è l’immissione di liquidità nei bilanci bancari, per assicurare la continua erogazione del credito all’economia reale ed evitare un credit crunch, una stretta creditizia. In pratica, con questo programma la BCE compra ogni mese un certo numero di titoli dalle banche, dando in cambio moneta cash (moneta cash appena stampata, perché è la BCE e può stampare tutta la moneta che vuole). L’idea è che se le banche sono piene di moneta cash potranno erogare prestiti alle imprese, che magari sono in difficoltà perché devono pagare stipendi, pagare le spese, eccetera. Quindi, il PEPP è direttamente finanziato dalla creazione di moneta da parte della BCE (moneta non permanente, per inciso: se questo passaggio ti lascia perplesso, ne abbiamo parlato qui) e non serve a finanziare politiche fiscali, ma solo a evitare che il sistema fiscale e creditizio salti per aria.
La seconda manovra adottata è il SURE, Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, che come si può intuire dal nome è una misura di sostegno per le persone in difficoltà lavorativa. Gli Stati europei possono accedere ad una serie di prestiti agevolati, con l’obbligo di utilizzare i fondi ricevuti per sostenere le politiche a favore dell’occupazione (nel caso italiano si tratta della Cassa Integrazione, fondamentalmente).
Chi paga SURE? SURE funziona tramite la raccolta di capitali sul mercato (l’obiettivo è raccogliere 100 miliardi), sulla base di un capitale iniziale sottoscritto dagli Stati Membri che si aggira attorno ai 25 miliardi. Il procedimento è questo: gli Stati versano una garanzia di 25 miliardi in SURE. SURE emette dei titoli, dal valore complessivo di 100 miliardi, che saranno venduti sul mercato. Visto che SURE ha già un capitale di partenza solido, è partecipato da tutti gli Stati europei, è sicuro, l’idea è che i titoli saranno venduti ad un tasso d’interesse basso, in quanto il rischio che questi titoli non siano onorati è basso. I soldi così raccolti saranno utilizzati per erogare prestiti agli Stati membri, a tassi agevolati. Nel caso italiano, un titolo di stato a 10 anni ha un rendimento dell’1,6%: se SURE riuscisse a spuntare al mercato un rendimento inferiore (e ragionevolmente lo farà, perché praticamente tutti gli altri Paesi europei hanno rendimenti inferiori e quindi il medione finale – a cui verosimilmente SURE si avvicinerà – sarà inferiore a 1,6%) e se il prestito fosse erogato all’Italia senza un ulteriore sovraprezzo, riceveremmo un finanziamento ad un tasso inferiore a quello che potremmo ottenere da soli. SURE ha una potenza di fuoco però molto limitata: 100 miliardi di Euro rappresentano lo 0,7% del PIL dell’Unione Europea (che è 13.918,14 miliardi di Euro).
La terza manovra è lo schema di finanziamento alle imprese messo in piedi dal Governo Italiano con il Cura Italia e potenziato successivamente. Si tratta di un supporto alle imprese che potranno ricevere dei prestiti dal sistema bancario ad un tasso agevolato. Lo Stato coprirà una parte del rischio di mancato pagamento del debito (se un’impresa chiede dei soldi e poi fallisce il prestito sarà parzialmente ripagato dallo Stato). I 750 miliardi di euro di cui si è parlato, anche con toni piuttosto celebrativi, non esistono: sono solo il massimo delle garanzie che lo Stato si è impegnato a offrire al sistema finanziario. Questi soldi, però, non esistono “fisicamente”: non c’è stato un accantonamento, o la creazione di un tesoretto, perché l’idea di base è che non ci sarà bisogno di utilizzarli tutti perché le imprese ripagheranno i loro debiti. Nel migliore dei casi lo Stato non verserà un centesimo: i prestiti erogati saranno restituiti direttamente dalle imprese. Per inciso, se l’Italia dovesse pagare 750 miliardi di Euro salterebbe per aria, perché 750 miliardi di Euro sono circa il 42% del PIL e sarebbe oltremodo complesso trovarli.
Si aprirebbe una lunga e interessante parentesi sulle difficoltà di realizzazione e sull’efficacia reale di queste misure, dei bizantinismi legislativi coinvolti e i ritardi nell’implementazione. Se n’è parlato, ad esempio, qua.
Fin qui, quindi, tre misure finanziate con tre modalità differenti. Il PEPP è un’estensione dei programmi di QE, per inserire liquidità nel sistema finanziario tramite emissione di moneta. SURE è la creazione di un fondo comune, con una data di scadenza ben precisa e un mandato molto definito, partecipato da tutti gli Stati. Il Cura Italia invece non prevede l’erogazione di finanziamenti da parte di un’Istituzione, in quanto si tratta di un mero sistemi di prestiti erogati dal sistema bancario e solamente garantiti dal pubblico.
Le misure ad oggi implementate hanno un tratto comune: sono poche (è un’interpretazione, eh, non un fatto). In alcuni casi sono poche perché sono strumenti dedicati a risolvere una singola problematica (come il PEPP), in altri casi sono poche perché ci sono letteralmente pochi soldi.
Per affrontare una crisi economica della portata maggiore della crisi del 2008 (almeno, il consenso attuale va in quella direzione, anche se ciascuno spara un po’ dei numeri a caso: ovviamente il confronto potrà essere fatto solo a posteriori) servono tanti, tantissimi soldi.
E qua si apre il vero problema: chi paga un insieme di misure importanti, trasversali a tutti i settori dell’economia e risolutive per tutte le differenti problematiche che la crisi sta ponendo, considerando che la crisi sta colpendo tutta l’Europa ma in maniera differente?
In estrema sintesi, esistono 5 differenti fonti di finanziamento:
- Finanziamento a debito
- MES
- Coronabond
- Monetizzazione del debito
- Eurobond
Le misure si differenziano per il soggetto che, in ultima istanza, finanzia, per l’orizzonte temporale e per le conseguenze politiche. L’obiettivo dell’articolo non è discuterne la natura e il funzionamento in maniera approfondita: probabilmente non basterebbe un trattato, e l’articolo è già abbastanza lungo già così. Ci concentreremo invece sulle implicazioni economiche e le ripercussioni politiche (e quindi, per rimanere ancorati alla premessa, pochi fatti e tante interpretazioni). Una piccola introduzione su cosa sono, comunque, può essere utile.
Il finanziamento a debito è la misura classica con la quale sono state affrontate le crisi più o meno recenti: ogni Paese emette più debito e, con i soldi che raccoglie, fa le misure di politica economica che ritiene più opportune. Ovviamente i risultati variano da Paese a Paese: nazioni più a rischio, più indebitate, con spread maggiori, pagano un costo maggiore e, nel peggiore dei casi, non riescono a ricorrere a questa strategia. In questo caso si dice che il Paese ha perso l’accesso ai mercati.
Il MES è – oltre che il casus belli che incendia la polemica politica di questi giorni – uno strumento pensato nel luglio 2011, in diretta concomitanza con la perdita dell’accesso ai mercati da parte di alcuni paesi europei investiti dalla crisi. Il MES – Meccanismo Europeo di Stabilità – è sostanzialmente un fondo gestito dal bilancio comunitario, a cui gli Stati Membri dell’Eurozona hanno versato una quota di sottoscrizione in misura proporzionale alle dimensioni (economiche e demografiche) e che opera secondo i medesimi meccanismi di SURE: il MES raccoglie finanziamenti sui mercati e poi eroga prestiti ai Paesi che ne fanno richiesta. Il MES opera su base volontaria: è il singolo Paese che, non potendo più accedere ai mercati, chiede un finanziamento al Meccanismo Europeo di Stabilità.
Per inciso, l’Italia non ha chiesto finanziamenti al MES e non chiederà finanziamenti al MES. Chi spiega che lo abbiamo fatto non capisce la distinzione fra “ridiscutere i meccanismi di accesso” e “chiedere dei soldi” e forse non varebbe la pena perdere tempo ad ascoltarlo.
La parte “non potendo più accedere ai mercati” è fondamentale: il MES è pensato come uno strumento residuale, una sorta di piano di riserva per Paesi in estrema difficoltà. La richiesta di un prestito al MES, infatti, non era pensata per essere indolore: i prestiti venivano erogati a condizione che gli Stati si fossero impegnati a perseguire politiche fiscali orientate al ripianamento dei conti pubblici – che nel linguaggio economico dei primi anni del decennio voleva dire austerity. La richiesta di accesso al MES, inoltre, non era indolore neanche da un punto di vista politico: è la dichiarazione ai quattro venti che si è alla canna del gas. Il 9 aprile l’Eurogruppo ha approvato una modifica allo Statuto del MES (il punto 16), per rimuovere ogni prerequisito all’accesso del credito con il solo vincolo di poter utilizzare i fondi per la gestione dell’emergenza pandemica.
Tuttavia, è esplicitato come the credit line will be available until the COVID 19 crisis is over. Afterwards, euro area Member States would remain committed to strengthen economic and financial fundamentals, consistent with the EU economic and fiscal coordination and surveillance frameworks, including any flexibility applied by the competent EU institutions.
In pratica, alla fine della crisi (bel tema, tra l’altro: come definiamo “when the crisis is over”?) gli Stati membri che hanno fatto richiesta di supporto al MES saranno vincolati ad adottare politiche macroeconomiche più o meno restrittive, con l’obiettivo di uniformarsi alla disciplina di bilancio tanto cara ai nostri amici del Nord.
I Coronabond sono dei titoli di debito pubblico emessi da un ente sovrannazionale (come ad esempio la Commissione Europea, o un fondo dedicato) con il dichiarato obiettivo di raccogliere risorse per gestire le politiche emergenziali.
La monetizzazione del debito è l’acquisto di titoli di debito pubblico da parte della Banca Centrale direttamente sul mercato primario – ovvero senza passare dall’intermediazione del sistema finanziario. È un po’ una bestia nera della politica monetaria: il consenso generale è che l’acquisto diretto di titoli incentiva nella classe politica la creazione continua di debito, “perché tanto poi c’è la Banca Centrale che paga”. In tempi di crisi, tuttavia, anche i dogmi più solidi cadono, ed ecco che la Bank of England inizia a fornire liquidità direttamente al Governo.
L’ultimo strumento, e il più ambizioso, sono gli Eurobond. Gli Eurobond sono, analogamente ai Coronabond, titoli di debito emessi da un’Istituzione sovranazionale, venduti sul mercato e i cui proventi vengono poi redistribuiti ai Paesi membri – probabilmente in virtù di quote prestabilite. La differenza fondamentale fra Coronabond e Eurobond è che i primi hanno un orizzonte temporale limitato: finisce la crisi, finiscono i Coronabond. I secondi, potenzialmente, no.
Le differenze fra i 5 strumenti sopra elencati sono molteplici. La prima è la potenza di fuoco che questi strumenti hanno: il debito nazionale può essere potenzialmente esteso, almeno nel breve periodo, fino a quando i mercati sono disposti a prestarti soldi, e fino a quando un Paese può indebitarsi a tassi sostenibili per non finire impiccato dai costi per il ripagamento degli interessi.
Il MES ha un limite ben definito: il prestito può arrivare al 2% del PIL – nel caso italiano stiamo parlando di poco meno di 36 miliardi.
Coronabond, monetizzazione e Eurobond sono invece potenzialmente infiniti, almeno in una prima fase: l’emissione di – diciamo una cifra astronomica giusto per avere un’idea – 5.000 miliardi di Eurobond implicherebbe avere un rapporto debito/PIL europeo pari al 36%, oltremodo gestibile.
La seconda differenza è chi è il soggetto che alla fine dovrà ripagare i soldi: nel caso del debito nazionale, le alternative sono o con l’emissione di nuovo debito, o con i soldi della fiscalità generale (cioè le tasse).
Il MES, essendo fondamentalmente un prestito, andrà onorato dai singoli stati che, nuovamente potranno emettere debito nazionale o usare i soldi dei cittadini.
I Coronabond, probabilmente, avendo una scadenza predefinita saranno interpretati come un prestito: a scadenza i titoli dovranno essere rimborsati dai singoli stati, secondo le proporzioni con i quali gli stati stessi hanno ricevuto i finanziamenti.
La monetizzazione del debito, infine, se nasce già con una data di scadenza (compro titoli sul mercato primario solo fino a quando non finisce la crisi, ad esempio), implica che al termine i titoli andranno rimborsati – pagando la Banca Centrale che li detiene – nuovamente, o emettendo altro debito o utilizzando soldi provenienti dalla fiscalità generale. (In teoria è possibile una monetizzazione ad infinitum, in cui ogni volta che scade un titolo questo viene ripagato con un nuovo titoli, nuovamente comprato dalla Banca Centrale. Fondamentalmente, questo vuol dire stampare i soldi con la macchinetta, e non credo che esista un singolo Governatore di Banca Centrale disposto a farlo).
Insomma, la caratteristica che accomuna monetizzazione con una data di scadenza, i Coronabond e il MES è la transitorietà dello strumento: è una misura emergenziale, ha una fine delineata più o meno precisamente, e alla fine di tutto ciascuno Stato dovrà restituire i soldi finanziandosi tramite gli usuali canali.
Per quanto riguardagli Eurobond, invece, il discorso diventa più sottile e potenzialmente molto più interessante. Come dicevamo sopra con riguardo al debito pubblico nazionale, il debito pubblico può essere tranquillamente rifinanziato. Il vecchio debito viene saldato emettendo nuovo debito. Finchè il Paese che emette il debito cresce non ci sono problemi di sorta – anzi. Anche nel caso in cui tutto il debito e tutti gli interessi sul debito vengano pagati emettendo nuovo debito, se il tasso di crescita del Paese è superiore al tasso di interesse il rapporto debito/PIL scende.
Gli Eurobond sono l’unica strada che non porterà alla frammentazione della politica economica europea e al collasso del disegno unitario. Ogni misura temporanea, infatti, ha con sé, fin dal principio, l’idea che quando tutto questo sarà finito ciascun Paese dovrà arrangiarsi per restituire ciò che gli è stato dato. Idea nobile, di per sé, se non che è presente una contraddizione fortissima.
Se uno Stato viene colpito maggiormente dallo shock dovrà richiedere proporzionalmente più risorse, e quindi sarà maggiormente in difficoltà nel restituirle. L’unico sistema per esser certi di poter restituire appieno, in breve tempo e senza danni i prestiti temporanei ricevuti per fronteggiare la crisi è non avere una crisi economica.
Le soluzioni a scadenza – MES e Coronabond – pongono di fronte ad una scelta: meglio non prendere i soldi ora e rischiare di morire oggi, o prenderli e rischiare di morire domani quando avrò comunque un’economia azzoppata ma in più dovrò restituire i debiti? Non dimentichiamoci che i finanziamenti del MES non vanno neanche lontanamente vicino a quanto sarebbe sufficiente per tamponare in maniera dignitosa l’attuale emergenza.
L’unica strada possibile per garantire la sopravvivenza economica e politica dell’Europa è la creazione di uno strumento di debito che, proprio in quanto debito pubblico, non ha una scadenza.
Questo non vuol dire, cari amici olandesi, che gli Eurobond saranno usati ad libitum per finanziare Alitalia: quando il ciclo economico si invertirà il debito comunitario sarà naturalmente assorbito dalla crescita dell’Eurozona.
L’Europa ha perso un treno spaventoso nel 2008 per fare il grande passo e passare da un accrocchio di Paesi che incidentalmente condividono una moneta ad un insieme di Paesi con una politica fiscale comune. Questo potrebbe essere il secondo e ultimo treno: se non si realizza che una politica di mutuo soccorso, in cui ci si aiuta a vicenda perché è conveniente per tutti aiutarci, forse è il caso che abbandoniamo l’utopia comunitaria.
Ecco la lista delle puntate di Il valore dei soldi:
1. Parole
2. Il lavoro di Draghi
3. Il prezzo del movimento dei prezzi
4. Un’incompetente alla guida della BCE
5. Blocca i contagi, close the spreads!
6. Chi siete? Dove andate? Un fiorino!
7. In marcia verso un’economia di guera?
8. MESsage in a bottle