Nacionalizmus. Il Coronavirus per l’Ungheria ha significato il trionfo del lungo percorso di un’anima nazionalista che ha trovando nel primo ministro Viktor Orban il suo culmine.
Il primo ministro, al governo dal 2010, dopo una prima esperienza a capo del governo dal 1998 al 2002, potrà ora governare per decreto.
Con 137 voti a favore e 53 contrari, lo scorso 30 marzo il parlamento di Budapest ha approvato la “Legge di autorizzazione”. Oltre i due terzi dei voti dell’Országház hanno garantito ad Orban i pieni poteri per, ufficialmente, contrastare il coronavirus.
I dati dei contagi Covid-19 per il Paese pre-carpatico, seppur minimi, potrebbero non essere attendibili perché i tamponi effettuati sono stati davvero esigui. Per arrestare, o almeno provare a frenare, il dilagare della pandemia, Budapest ha approvato un pacchetto di leggi che di fatto mettono il premier in solitaria al comando. Il primo ministro potrà sciogliere il Parlamento, governare per decreto, modificare le leggi e perfino vietare le elezioni, senza dover passare per verifica dell’Assemblea.
La nuova legge prevede fino a 8 anni di carcere per chi non rispetta il coprifuoco imposto dalle autorità e da uno a 10 anni per chi diffonde “notizie false”. Il testo legge non si è premurato di fare emergere dal vago la tematica delle fake news, che di fatto includono qualsiasi critica nei confronti della politica, sanitaria e non, del governo. Oltre al coprifuoco, sono previste misure restrittive che a varie sfumature possono essere paragonate a quelle della maggior parte dei paesi europei. A sancire un autentico passo avanti verso la svolta autoritaria del paese è però l’assenza di una cornice temporale entro la quale limitare provvedimento: i pieni poteri ad Orban saranno a tempo indeterminato.
E dire che l’opposizione si era resa disponibile a votare in favore della legge, se il premier avesse acconsentito ad inserire nel testo una scadenza, per tutelare il paese da una deriva autoritaria. Forte della maggioranza in aula del suo partito sovranista, Fidesz, Orban li ha attaccati: “O siete con me o siete con il virus”. L’esigua minoranza parlamentare ha reagito duramente, accusando il governo di eliminare la libertà di opinione dal Paese, apostrofando la legge come un “golpe bianco” che di fatto esautora gli organi costituzionali e l’Assemblea nazionale dell’Orszàggyulés.
I rapporti già tesi tra l’Ungheria e l’Unione Europea si sono ulteriormente inaspriti. L’adesione dei 13 eurodeputati magiari era stata congelata dal Partito Popolare Europeo (PPE), mentre l’Ungheria è finita sotto procedura d’infrazione per violazione delle norme in materia di asilo. Il solco tra Orban e l’Europa si fa ora più profondo, anche se la presidente Ursula von der Leyen si è tenuta cauta – limitandosi a un generico richiamo ai paesi membri, senza nominare l’Ungheria, ad adottare «misure di emergenza limitate a quanto è necessario e strettamente proporzionato». Il comitato europeo per le libertà civili ha chiesto che la Commissione apra un’inchiesta su una possibile violazione dell’articolo 2 del trattato europeo, che impone agli stati membri di tutelare al loro interno i diritti fondamentali e i principi democratici; mentre il presidente del PPE Donald Tusk ha invitato il gruppo europeo di centrodestra a espellere il partito di governo Fidesz.
Come un cattivo di James Bond, Orban non riesce a evitare di svelare i suoi piani. Il primo ministro ungherese non ha mai nascosto il suo desiderio di vincolarsi al potere. Riporta l’Economist come poco prima di tornare al potere nel 2010 il “leader illiberale” abbia affermato «Dobbiamo vincere una volta sola, definitivamente», o come nel 2013 abbia rilasciato un’intervista in cui sanciva che «In una crisi, non si deve governare con le istituzioni». Orban non ha mai fatto mistero di queste esternazioni, anche se i suoi esordi politici parrebbero in contraddizione con questa visione politica. Esternazioni, inoltre, che non rappresentano affatto un’ascesa improvvisa, dovuta alla crisi economica o alla cosiddetta “rinascita del populismo”, ma una precisa idea evoluta nel tempo.
Nato nel 1963 in una famiglia della tipica piccola borghesia di provincia, integrata e per nulla ostile al regime comunista, Orban si è laureato in giurisprudenza con una tesi su Solidarnosc e, grazie a una borsa di studio della Fondazione Soros, ha avuto accesso al Pembroke College di Oxford, quando nel 1989 il mondo ad Est della Cortina di Ferro inizia ad entrare in fermento. Il 16 giugno 1989 una grande folla assiste a Budapest ai solenni funerali tributati a Imre Nagy e agli altri martiri della rivoluzione del 1956. Tutto procede secondo i piani fino a quando non prende la parola un giovane scapigliato, che nel marzo 1988 ha fondato insieme a una trentina di conoscenti un piccolo movimento di opposizione, l’Alleanza dei giovani democratici (Fidesz). Ignorando i “consigli” dei servizi di sicurezza, che lo tengono sotto osservazione, nei pochi minuti a sua disposizione il guastafeste riesce ad accusare il governo comunista ungherese di aver rubato la giovinezza di un’intera generazione, a chiedere libere elezioni, e a invocare il ritiro delle truppe sovietiche. L’impatto mediatico è dirompente, il breve discorso riesce a spostare le coordinate della commemorazione, dandole un preciso contenuto politico di opposizione al regime morente.
Quei dieci minuti di discorso segnano l’inizio di una carriera politica non più interrotta: nemmeno sessantenne Viktor Orban è l’unico reduce dei movimenti di opposizioni anticomunisti degli anni Ottanta ancora in attività. Nonostante le prime libere elezioni del 1990 siano state una disfatta per i liberali, ottenne uno scranno in parlamento, mai più abbandonato negli ultimi 30 anni. Dopo un decennio di fedeltà ai dettami dell’ Internazionale liberale di cui era vicepresidente – fino a quando nel 2000 passò al PPE – la crisi economica ungherese di fine anni Novanta aprì le porte del potere alla svolta identitaria di Fidesz, oramai trasformata in un partito di massa, condotto alla vittoria nel 1998.
Il voto del 1998 trasformò Fidesz da movimento a partito di governo strutturato, rompendo il bipolarismo post-comunista e cambiando le regole del gioco. Da allora in avanti, temi come l’identità ungherese e la posizione di Budapest in relazione al resto d’Europa avrebbero svolto il ruolo di questioni politiche primarie. Alla sconfitta del 2002 seguono otto anni di traversata nel deserto. Per sopravvivere al momento di crisi Orban distaccò gradualmente le sue posizioni politiche dalle residue componenti liberali.
Quello salito al potere nel 2010 era un Orban largamente diverso dal tribuno di Piazza degli Eroi e dal giovane primo ministro del 1998. In un discorso del 2014, Orban seppellì definitivamente i dogmi neoliberisti presentando la sua idea di Stato come entità di costruzione, rinvigorimento e organizzazione della comunità nazionale. Ripudia Bruxelles ma sfrutta i fondi; si scaglia con l’ex finanziatore Soros ma si fa assistere dall’ex Chief Strategist di Donald Trump, Steve Bannon; predica la chiusura ai migranti e la difesa della sovranità nazionale a centinaia di chilometri del Mediterraneo e attira nella sua orbita esponenti politici di Paesi, come l’Italia, che con Ungheria e Visegrad hanno divergenze d’agenda notevoli.
Trent’anni dopo il discordo in Piazza degli Eroi, Viktor Orban è ancora sulla cresta dell’onda, una contraddizione vivente da cui sembra trarre forza.