Come risultato della quarantena imposta dalla crisi ormai globale innescata dall’espandersi del Corona-virus, abbiamo iniziato a parlare di smart working. Impossibilitati ad uscire di casa e costretti all’interno delle mura domestiche, tutti i lavoratori che possono sono caldamente invitati dal governo a usufruire di questa modalità di lavoro che, dato il nome della rubrica, suggerirei “surrogata”. Quando si tratta di questi fenomeni, il rischio è quello di riprodurre la solita e – francamente abbastanza noiosa – struttura di un articolo su un nuovo fenomeno sociale; si parte dalla definizione, si elencano i pro e i contro del fenomeno e poi ci si addormenta tutti felicemente sul compitino di chi ha scritto l’articolo.
Quindi, invece di partire da una definizione, si potrebbe partire dal primo esempio che si può riscontrare nella storia di un lavoratore da casa. E allora andiamo, ovviamente, ad un classico. Il primo smart worker in questo senso è Vulcano, per gli amici greci Efesto. La divinità delle fucine viene al mondo indesiderato dalla madre Era che lo getta dal Monte Olimpo appena nato, il mito vuole che la caduta lo abbia reso brutto, zoppo e deforme. Il piccolo mostro trova pace ritirandosi in una grotta (pare alle pendici dell’Etna) dove impara l’arte della forgia. Nasce così il primo lavoratore da casa della storia. Il problema è che a lungo andare, Efesto diventa il suo lavoro e niente più, non riuscendo a ritagliarsi uno spazio personale, la sua vita diventa legata e quasi inscindibile a quelle buie e solitarie grotte, dalle quali nemmeno l’amore – anche se non ricambiato – di una bellissima Venere potranno salvarlo dalla sua dannazione: il lavoro.
E questo apre a due questioni fondamentali sul fenomeno dello smart working. La prima riguarda le modalità di lavoro di Efesto, ossia, se il solo fatto di lavorare da casa, bastasse a rendere il suo modo di lavorare smart. Mentre la seconda riguarda il fatto che se il modo di lavorare di Efesto non era smart, che differenza c’è tra “smart working“, “telelavoro” e “lavoro da remoto”? E se c’è una differenza perché i termini vengono usati in modo intercambiabile tra di loro?
Se Efesto non fosse stato un Dio, probabilmente, avrebbe avuto un datore di lavoro. Efesto si sarebbe dovuto recare in officina, lavorare per un certo periodo di tempo e poi tornare a casa e fare quello che riusciva del tempo libero che gli restava. Ma Efesto, invece, era riuscito a portarsi il suo mestiere dentro alle mura domestiche, permettendogli e anche costringendolo a lavorare instancabilmente, giorno e notte. Nessuno poteva controllare che la mole di lavoro del Dio non stesse nuocendo alla sua salute, e inoltre, nessuno avrebbe potuto controllare che lavorasse un numero adeguato di ore necessarie al mantenimento della sua salute psicologica. Il concetto in inglese si chiama time porosity, la tendenza del tempo libero e il tempo lavorativo a uniformarsi e diventare un tutt’uno. Infatti, secondo uno studio dell’International Labour Organization (ILO) in molti paesi chi lavora da casa, soffre di questa patologia con grossi problemi e rischi per la salute; e dalle reazioni del Dio alle sue sventure, si può dire che fosse proprio il suo caso.
Possiamo anche concordare che questo modo di interpretare il lavoro non fosse decisamente smart. Ma allora che cos’è lo smart working? Per farla breve lo smart working si basa sulla decostruzione dei limiti tradizionali dell’esperienza lavorativo: luogo di lavoro, orario fisso, presenza fisica. E si fonda sulla creazione di un sistema lavorativo decentralizzato, isolato, basato sul raggiungimento di obiettivi e risultati, in piena autonomia dall’organizzazione gerarchica e centralizzata dei vecchi luoghi di lavoro. Inoltre, può essere svolto in qualsiasi luogo, non per forza la propria abitazione, ma, in tempi non “quarantenati”, può essere anche svolto in un ufficio condiviso, in uno di quei rivoltanti caffè dove si affogano disgustosi mix di intrugli zuccherati, oppure nell’appartamento di nonna perché ha una connessione migliore e si mangia molto bene. Si può intuire che i vantaggi di questa modalità lavorativa sono duplici, per il datore di lavoro e per l’impiegato: per il primo non vi è la necessità di pagare un luogo fisico (quindi meno costi fissi) e per il secondo la flessibilità di non dover andare al lavoro tutti i giorni e timbrare il proverbiale cartellino. E c’è un terzo, sornione beneficiario, l’ambiente.
Fino a qui sembra che abbia descritto alla perfezione il sogno di ogni giovane professionista. Infatti, lo smart working ad oggi, resta una prerogativa di poche categorie fortunate, che hanno un’istruzione abbastanza elevata da garantirgli questa modalità, che hanno stipendi abbastanza alti da garantire la carenza delle naturali tutele sociali a cui, una volta, eravamo abituati.
L’epidemia ha avuto il merito di aver accentuato nel nostro gergo la parola smart working. Ma, ad una prima occhiata e alla luce (seppur artificiale) dell’esempio di Efesto, quello di cui stiamo veramente parlando in questo momento è più la sua declinazione come telelavoro o lavoro da remoto. Pensandoci, tutte le persone costrette a casa in questo periodo non hanno subito un cambiamento filosofico nelle loro modalità di lavoro: le riunioni sono state sostituite da interminabili chiamate, gli orari di connessione in teoria restano gli stessi di quelli lavorativi di prima e la tipologia del lavoro è rimasta invariata, così come la sua remunerazione. In poche parole, il lavoro durante il Corona-virus non è diventato smart, ma è diventato remoto o telematico.
Allora, proprio come il nostro Efesto, il rischio di chi si trova in questa situazione è quello di non riuscire a separare la dimensione lavorativa da quella personale, o casalinga, specialmente in un mondo in cui siamo costretti nelle nostre case. Il problema è dunque, per prendere a prestito la terminologia inglese, quello di essere always on, sempre connessi, non sapendo che scusa inventare per tornare alla nostra, seppur strana, quotidianità. Come spesso accade, la critica che si può muovere a questa posizione è che in una situazione di emergenza ci si arrangia un po’ come si può e che ovviamente la questione è lasciata al buonsenso.
Ma è proprio qui che si dovrebbe, almeno in teoria, distinguere uno stato di diritto da uno stato assoluto: il buonsenso o la discrezione del sovrano, e dei potenti in ogni caso, viene sostituito dalla legge. Ecco perché, forse, invece di acclamare ed accogliere a braccia aperte l’avvento di una nuova era, sarebbe il momento di analizzare quali sono i rimedi per i problemi creati da una situazione per cui il nostro ordinamento non era preparato. Una soluzione, preventivata già in altri codici (Francia e Germania per esempio), è quello del diritto alla disconnessione che nell’ordinamento italiano seppure menzionato resta ancora lontano dall’essere tutelato – o meglio, si lascia la definizione delle due sfere ad un accordo tra privati e per privati si intende un datore di lavoro e uno che lo offre e data la situazione economica sappiamo chi ha il coltello dalla parte del manico.
E se vogliamo tutti evitare di finire risucchiati dal nostro lavoro e passare alla storia come dei novelli Efesti, rinchiusi nelle viscere della nostra professione, senza una vita privata a cui aggrapparci, forse è ora che iniziamo a parlarne seriamente.