La storia dello sport ci ha ormai abituato a casi di Paesi capaci di sopperire a obiettive condizioni di svantaggio demografico con un mix di grandi campioni e ottime scuole. Basti pensare all’Uruguay del fútbol o alla Lituania del basket, in grado di competere con veri e propri colossi dello sport, nonostante un bacino tutt’altro che sterminato da cui pescare. La manifestazione più eclatante in questo senso riguarda il recente boom calcistico dell’Islanda, un’isola con la stessa popolazione di Bari capace di portare la propria nazionale fino ai quarti di finale dell’ultimo Europeo e di mettere in crisi l’Argentina di Messi agli scorsi Mondiali. Da qualche anno nel club dei piccoli che si fanno grandi è entrata a pieno diritto una nazione che non ha ancora spento le 30 candeline: la Slovenia può contare su poco più di due milioni di abitanti distribuiti su un territorio più piccolo dell’Emilia-Romagna. E su un’infornata di talenti mai vista prima.
In un Paese dominato dalle Alpi a farla da padrone non può che essere lo sci. E proprio dallo sci – o meglio dal salto con gli sci – è partita la parabola di uno degli sportivi più acclamati di Slovenia: quando nel 2011, appena 22enne, appende gli scarponi al chiodo per dedicarsi al ciclismo, Primož Roglič ha già sul curriculum un oro ai campionati mondiali juniores di Tarvisio. Da allora una lunga ma inesorabile scalata al successo in sella a una bicicletta. Perché la sua non è la storia di un predestinato: a 26 anni, l’età in cui un ciclista esce dal mondo dorato dei “giovani”, il palmarès di Primož si limita a una vittoria di tappa nel non irresistibile Tour d’Azerbaïdjan. Anno dopo anno, però, arrivano due vittorie al Giro di Slovenia, altrettante a quello di Romandia e un argento mondiale a cronometro. Ed è proprio a forza di successi e ottimi piazzamenti nelle prove contro il tempo che si fa largo anche nei grandi giri: nel 2018 arriva un quarto posto al Tour de France, poi nel 2019 la consacrazione. Al Giro d’Italia parte forte per poi chiudere “solo” terzo, alla Vuelta a España impara dai suoi errori e riesce a portare la roja fino a Madrid.
Nessuno sloveno era mai salito sul podio di un grande giro prima di quest’anno. E per non farsi mancare nulla, ai due piazzamenti di Roglič si aggiunge anche quello – ancora più sorprendente – di Tadej Pogačar. Partito come gregario di lusso del nostro Fabio Aru (ahimè ancora una volta sparito dai radar a metà corsa), il 21enne di Komenda è riuscito ad aggiudicarsi ben tre tappe della corsa spagnola e a chiudere terzo in classifica, alle spalle dell’ormai ex campione del mondo Alejandro Valverde e davanti a campioni già affermati come i colombiani Quintana e López e il polacco Majka. Una prova di forza che ha stupito tutti, in primis la sua squadra, e che gli ha fruttato anche la maglia bianca di miglior giovane. Dalla sua, oltre all’età, ha la cabala: lo scorso anno si è infatti affermato al Tour de l’Avenir, la corsa a tappe destinata agli under-23 e considerata una sorta di antipasto del ben più prestigioso Tour de France. Scorrendone l’albo d’oro, in effetti, si succedono corridori in grado di lasciare profondamente il segno negli anni seguenti. Da Gimondi a Lemond, da Indurain a Fignon, sono in tanti i futuri vincitori del Tour a essersi imposti all’Avenir. Da ultimo Egan Bernal, vincitore nel 2017 e in giallo sugli Champs-Élysées appena due anni dopo.
Evidentemente quella di sovvertire i pronostici è una caratteristica prettamente slovena, visto che prima del 2017 il miglior risultato della nazionale di basket era il quarto posto di otto anni prima in Polonia e che Luka Dončić e compagni hanno pensato bene di far partire l’assalto al podio direttamente dal gradino più alto. Il primo posto nel girone di ferro con Grecia e Francia garantisce agli sloveni un tabellone agevole (Ucraina e Lettonia) fino alla semifinale, dove la cavalcata non si ferma nemmeno di fronte alla corazzata-Spagna. La finale tutta jugoslava con la Serbia orfana di Jokić ma comunque forte dei vari Lučić, Bogdanović e Mačvan è entrata di diritto nella Storia del Paese, quella con la S maiuscola. Ancor più del 18enne Dončić, in forza al Real Madrid ma già promesso sposo ai Dallas Mavericks in Nba, risulterà decisiva la decennale esperienza oltreoceano di un Goran Dragić in formato galattico: 35 punti e 12 rimbalzi che contribuiscono a fissare la piccola Repubblica alpina sulla mappa della pallacanestro mondiale.
E poco male se i campioni d’Europa in carica hanno maldestramente fallito la qualificazione ai recenti mondiali cinesi: Dragić e Dončić sono il presente e – nel secondo caso – il futuro di una nazionale che, nonostante la carenza di altri nomi di peso (l’unico altro Nba è il 22enne Vlatko Čančar, in forza da pochi mesi ai Denver Nuggets), non può più essere sottovalutata. Chi spera di seguire le orme dei connazionali della palla a spicchi è l’undici di Matjaž Kek, fino a pochi giorni fa ancora in corsa per strappare una qualificazione agli Europei di calcio che manca ormai da vent’anni. Allora la nazionale trascinata da Zlatko Zahovič – tuttora recordman di reti – sfruttò un girone di qualificazione non impossibile per centrare la prima storica qualificazione a una competizione internazionale. Nemmeno stavolta il raggruppamento era dei più ostici ma la due sconfitte consecutive con Macedonia e Austria hanno compromesso irrimediabilmente le chance di Iličić e compagni.
Eppure una sorta di generazione d’oro s’era affacciata anche nel calcio: gli Handanović e gli Oblak, gli Iličić e i Birsa, i Kurtić e gli Zajć non nascono ogni giorno. Meno che mai in un Paese che, al contrario di altri nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, non respira fudbal. In questo senso il paragone con la Croazia vicecampione del mondo, ma anche con Serbia e Bosnia, è abbastanza impietoso. Non è un caso che dei 22 convocati jugoslavi al mondiale di Italia ’90, l’ultima competizione disputata dalla nazionale della federazione, Srečko Katanec fosse l’unico sloveno di nascita, per giunta di origini croate. Sono ormai 15 anni che la Slovenia sportiva attende che qualcuno raccolga l’eredità di Zahovič, l’eroe di Euro 2000 (suoi 3 dei 4 goal segnati nella manifestazione) cacciato due anni dopo dai mondiali nippo-coreani per contrasti proprio con il ct Katanec. Nel frattempo ci hanno pensato canestri e biciclette a tenere viva la passione.