L’arte contemporanea ha inizio nel 1917 con un cesso di porcellana.
Dal debutto artistico di quel famigerato vespasiano sono passati più di cent’anni ed è ormai un’abitudine consolidata – alla stregua di un cliché – incontrare ogni sorta di oggetto, da quello di uso comune alle più svariate e implausibili mirabilia, all’interno delle grandi esposizioni offerte dai più noti musei d’arte contemporanea: cavalli appesi al soffitto, fette di squali in formalina, pareti ricolme di vulve di gesso e calchi di piccioni razzolanti.
Così, tra un teschio di diamanti e una tenda di perline alta sei metri, siamo arrivati a dubitare della veridicità di ciò che ci circonda e che si presenta ai nostri occhi nel ruolo di un artefatto artistico. Non si tratta di uno slancio critico, ma di un semplice strumento difensivo; la domanda che ci poniamo costantemente è sempre la stessa: «ma questa sarà arte?». Ecco allora le folle che si stringono, estatiche e coinvolte, intorno a un semplice paio d’occhiali, abbandonato sarcasticamente da un ironico visitatore del MoMa di San Francisco – un vecchio adagio ben predetto da un Sordi che, nei panni di un fruttivendolo costernato, ritrova la moglie addormentata sotto una palma alla Biennale di Venezia, attorniata da una folla intellettualeggiante che pontifica su un semplice pisolino, elevato per errore alla stregua di un’importante installazione.
Come siamo arrivati a questo punto? Come mai tra le ricerche più gettonate di Google appare «Perché non capiamo l’arte contemporanea?».
È ben noto che l’arte abbia dismesso, almeno dopo l’avvento della fotografia, l’esigenza di riprodurre fedelmente la realtà; è altrettanto noto che con questa trasformazione sia venuta meno anche l’attenzione iconologica della tradizione figurativa moderna e che, da questo disconoscimento, siano nate nuove correnti pittoriche, prime fra tutte quella impressionista. Con il tempo è poi divenuto anche più complesso porre dei confini tra le diverse forme d’arte – si pensi ad esempio ai collage di Picasso. Il passo decisivo fu però quello di mettere in dubbio anche il genio tecnico dell’artista. Il padre di quest’ultima trasformazione, che sta alla base di ciò che chiamiamo arte contemporanea, ha un nome e un cognome: Marcel Duchamp.
La rivoluzione dell’artista francese è ben riassunta dal concetto di ready–made, cui l’accademico Thierry De Duve ha dato una definizione chiarificatrice: «Un’opera d’arte che si identifica nell’enunciato Questo è arte». Svanisce il chiaro-scuro, non c’è più colore, né tela o pennelli, è rimasto solo un oggetto di tutti i giorni prodotto industrialmente, che viene decontestualizzato tramite il semplice atto di essere stato scelto e poi innalzato alla stregua di un’opera d’arte, per poi essere «rifunzionalizzato come puro simbolo». L’approccio del ready–made è stato in grado di rivoluzionare il classico concetto di arte e le categorie normative che hanno sempre discriminato l’oggetto artistico dall’oggetto comune. Si prenda come esempio il concetto di gusto: Duchamp, per definirlo, in un’intervista del 1966, due anni prima della sua morte, disse: «Il gusto non è altro che un’abitudine, la ripetizione di una cosa già accettata, che è necessario fuggire attraverso il disegno meccanico, che è in grado di superare ogni convenzione pittorica». Bellezza, gusto, purezza formale: per l’artista del ready–made si tratta di categorie already–made, fatte e finite.
Nel 1917, presentando alla Society of Indipendent Artist La Fountain, l’orinatoio di ceramica misteriosamente firmato R. Mutt, Duchamp è riuscito a oltrepassare le categorie interpretative del suo tempo, regalandoci un nuovo concetto d’arte, tanto rivoluzionario da essere ancora oggi discusso. Qui troviamo il seme, le radici di molte forme espressive della contemporaneità: dal body painting, all’arte concettuale, fino alla performing art. L’orinatoio è stato il primo passo verso l’affermazione di un nuovo paradigma: l’arte è idea, non più realizzazione e capacità di dipingere. Il nuovo portavoce dell’arte è un intellettuale che non cerca più la perfezione stilistica dei tempi dei Salons parigini. Agisce mentalmente, presentando e ri-presentando la realtà nella fantasia e la fantasia nella realtà. L’arte grazie a lui è diventata concetto, svestendosi di tutte le categorie di giudizio che gli erano state affibbiate nei secoli e imponendosi come una provocazione intellettuale che del chiaro-scuro non sa più che farsene.
Sarebbe possibile giudicare un romanzo per il suo suono, un film per la sua consistenza aptica, o un album jazz per le raffinate qualità visive? Allora perché giudicare ancora, dopo cent’anni, questa nuova forma artistica attraverso la categoria della correttezza e della purezza formale? L’arte contemporanea inizia dove queste categorie sono cadute, in un cesso di ceramica firmato R. Mutt centodue anni fa.