«New football, old soccer». Con queste parole pronunciate nel silenzio di un teatro di Sydney nel novembre 2004, Frank Lowy invitava tutti gli appassionati di calcio australiani a guardare avanti, verso la neonata A-League, e calare un grande sipario su tutto ciò che l’aveva preceduta. Elencando una dopo l’altra le regole del nuovo campionato, il presidente della Football Federation Australia (FFA) richiedeva in realtà uno sforzo ancora maggiore — pretendere che quel passato non fosse mai esistito. Quello era appunto l’old soccer, una pagina da cancellare piuttosto che una base su cui costruire il new football. Ebbene, Lowy ebbe ragione. La prima stagione di A-League, inaugurata nell’agosto 2005, fece registrare un incremento di tifosi del 161% rispetto al campionato precedente, che segnò la fine, ma si può dire fallimento, della National Soccer League (NSL). C’era di più: il 41% dei sostenitori attirati allo stadio dalla nuova lega non aveva mai assistito in passato a un match di NSL. Ma c’era un dettaglio che Lowy e la federazione avevano trascurato: i giocatori che partecipavano al nuovo campionato avevano un passato.

Prendete Mark Viduka, diventato capitano dell’Australia. Nato a Melbourne ma di evidenti origini croate, l’ex giocatore del Leeds mosse i primi passi da professionista nei Melbourne Knights. Dell’attaccante, oltre alle valanghe di gol che regalarono una Grand Final e un titolo NSL nelle sue tre stagioni di militanza, si ricorda il bacio alla bandiera della Croazia presente sul logo della squadra dopo ogni rete. A quel tempo, i Melbourne Knights erano tra i più popolari e vincenti ethnic clubs, società nate in Australia tra gli anni 50 e 60 fondate da una specifica comunità etnica, nel caso in questione ovviamente quella croata. Erano proprio questo genere di squadre a dominare la scena del calcio nazionale, frutto dell’ondata d’immigrazione dall’Europa che riguardò il Paese nel secondo dopoguerra. Italia, Jugoslavia (e i Paesi ora indipendenti che la formavano), Grecia, Ungheria — queste le principali comunità per le quali l’Australia rappresentava il luogo dove cominciare una nuova vita e portare la più grande delle passioni: il pallone. Da loro nacquero quei club che circa mezzo secolo dopo Lowy definirà old soccer. Ad esser più precisi, si potrebbe però specificare che l’old soccer è nato grazie a loro. Al loro arrivo in Australia, infatti, i migranti trovarono un terreno particolarmente fertile. Come spiegato a MondoFutbol da Joe Gorman, autore del libro Life and Death of Australian Football, «prima di questa immigrazione di massa il calcio nazionale era in mano agli anglo-australiani, non era uno sport professionistico e aveva standard molto bassi». Quello che hanno veramente portato i migranti europei è stata la professionalità.

Football, Soccer, Australia and Greece
Mark Viduka in un incontro tra Australia e Grecia nel 2006 (jheritage70/Flickr)

Agli occhi di chi entra in un nuovo Paese, spesso senza conoscerne la lingua, aggregarsi a una società di calcio è un modo per stringersi alla comunità di connazionali. Così inizialmente, dando quasi la priorità al fattore sociale, i migranti cominciarono a mettere soldi in questi nuovi club: gli italiani fondano il Club Marconi e l’APIA (Associazione Poli-Sportiva Italo Australiana), nascono SC Croatia (che diventerà Melbourne Knights) e il Sydney United dalla comunità croata, il St George Budapest che fa capo agli ungheresi e il South Melbourne Hellas, di chiara impronta greca, guidato tra il 1989 e il 1991 da una leggenda come Ferenc Puskás. Assieme a loro, altre decine di squadre iniziano a popolare i sobborghi delle più grandi città. Soprattutto, iniziano a giocare.

Perché dovrebbero avere il diritto di creare delle loro squadre, anziché unirsi a quelle locali esistenti?

Era questa secondo Joe Gorman la domanda che molti australiani, contrari al fenomeno degli ethnic clubs, si ponevano, considerando queste realtà una minaccia. L’odore di ćevapi che si alzava dalle tribune durante alcune partite o sentire i tifosi urlare «Croazia, Croazia» non rientrava in quella politica di assimilazione voluta dal governo, secondo cui gli immigrati avrebbero dovuto trasformarsi in australiani nel minor tempo possibile. Il calcio era visto come un elemento che aiutava questa gente a mantenere le proprie radici, una barriera al processo di “australianizzazione”.
È però sbagliato pensare agli ethnic clubs come delle cerchie chiuse e ristrette — in realtà, queste squadre iniziarono presto ad accogliere giocatori e tifosi di qualunque nazionalità pur mantenendo la propria identità. Per molti calciatori fare parte di queste società rappresentava un’esperienza unica e arricchente, come lo stesso Viduka spiegherà anni dopo, affermando di amare addirittura di più i giocatori non croati presenti ai Melbourne Knights perché erano «stranieri che lottavano per noi». L’atteggiamento ostile del Paese non frenò comunque queste squadre dallo svilupparsi, in alcuni casi anche in vere e proprie superpotenze. È il caso del St George Budapest che diede ben cinque giocatori all’Australia per la sua prima Coppa del Mondo, nel 1974. Proprio il club di radici ungheresi e altre squadre etniche furono tra i promotori della pazza idea che diventò realtà nel 1977: far diventare il calcio il primo sport in Australia ad avere un campionato nazionale.

Il simbolo del Croatia Soccer Melbourne Club, ex Melbourne Knights (Tom Pollock/Melbourne Knights)

Dopo anni di competizioni statali, la National Soccer League diventò così la prima lega a riunire squadre da tutto il Paese. A quel tempo, però, la vecchia Australia Soccer Association (ASA) aveva già puntato gli occhi sul movimento — pur benedicendo la creazione della NSL, la federazione da anni metteva pressione ai club perché intraprendessero quel percorso di “de-etnicizzazione” che ne avrebbe aumentato la popolarità al di fuori delle specifiche comunità. Inoltre, gli scontri avvenuti sugli spalti nei match più caldi contribuirono ad accentuare il malcontento, nonostante questi riguardassero solo una stretta minoranza. Così, mentre squadre come St George, Sydney Hakoah, Marconi, Melbourne Knights e South Melbourne (tutti ethnic clubs) si spartivano il bottino dei primi due decenni di NSL, l’Australia calcistica si convinceva di essere vicina al punto di non ritorno.
Joe Gorman definisce la NSL di inizio Anni 2000 come un campionato «completamente al verde». In effetti, col passare delle stagioni l’affluenza media era scesa e la maggior parte dei club era pesantemente in debito. Le difficoltà ad ampliare il bacino di tifosi erano diventate evidenti e questo portò i nuovi investitori a preferire squadre sconosciute ma locali, o addirittura create da zero. «La logica dietro la creazione dell’A-League era di far partecipare una squadra per ogni città, concentrando la base di tifosi. Questo escludeva gli ethnic clubs, incapaci di attirare sostenitori al di fuori della loro comunità», prosegue Gorman. In senso commerciale, l’elemento etnico di queste società era diventato il loro limite.

Il 2004 fu l’ultima stagione di NSL – pochi mesi dopo Lowy e la nuova FFA, sostituta dell’ASA, stavano già discutendo del futuro. Otto squadre (negli anni diventate dieci), molte delle quali nate dal 2000 in avanti, senza alcuna promozione e retrocessione. Secondo Gorman si trattava di «un modo per iniettare soldi nel sistema. Non c’era nulla, le squadre non avevano storia. Affittarono stadi, crearono nomi, colori, chiamarono giocatori e allenatori: è successo tutto dal giorno alla notte». La candidatura era aperta a tutti, ma escludeva di fatto gli ethnic clubs in quanto non in possesso dei requisiti economici richiesti dalla federazione per la nuova lega. Si chiudeva così l’era dei pionieri del calcio in Australia, tutti retrocessi nei campionati statali, alcuni destinati a scomparire.


Il St George, però, esiste ancora ancora oggi e veste il rosso, il bianco e il verde, restando legato alle origini. Dal 2014, la FFA Cup dà l’unica chance alle squadre delle serie minori, quindi anche agli ethnic clubs, di confrontarsi coi giganti dell’A-League. È una competizione che secondo Joe Gorman «cura un po’ di ferite». Dieci anni dopo quella notte che ha resettato il calcio australiano, anche la federazione ha fatto un passo verso il passato perché riconoscerlo, anziché cancellarlo, è il miglior modo per sapere dove si è diretti.