Con il termine Nouvelle Vague si fa riferimento a un determinato movimento e periodo nella storia del cinema francese sorto sul finire degli anni Cinquanta, anche se nella realtà i due termini apparvero in prima istanza in un’inchiesta sociologica.

Prima della Nouvelle Vague

Intorno a quale asse ruoti la storia del cinema francese è difficile a dirsi, anche perché gli assi sono molteplici. È certo che la percezione che il cinema francese ha offerto, specialmente qui in Italia, non lascia molti dubbi sulla sua vocazione ad autorappresentarsi con caratteri definiti. Per il cinema stesso che ha prodotto, la Francia posteriore agli anni ’60 sembra lasciare dietro di sé lo strascico nuziale di una nazione intellettuale, dalla sensibilità “femminile”, impegnata e disimpegnata a fasi alterne e tipicamente di vocazione esistenzialista, spesso che gioca con sé stessa. I quattrocento colpi e Fino all’Ultimo respiro, che uscirono nel ’59 e nel ‘60, fecero da spartiacque. Considerata però la cesura storica, viene da chiedersi cosa esistesse prima che un cinema così marcatamente identificativo catalogasse i transalpini fino a configurarli con quel carattere che ancora oggi li definisce agli occhi del mondo.

Prima di tutto, e questo forse spiazzerà i più, va detto a chiare lettere che il cinema francese “classico” non muore certo con la Nouvelle Vague, termine peraltro tuttora indefinito; gli sopravvive certamente, pur non mettendovisi propriamente in competizione. Procede parallelo e forse gli si affianca.

Gérard Philipe

Fino allo schiudersi dei ’50 i francesi avevano dato un’ immagine di sé stessi attraverso la cinematografia nazionale con toni che apparivano tutto il contrario: dal realismo poetico al dramma carcerario e ancora al polar, commistione di generi noir e poliziesco, il paese di De Gaulle aveva messo in immagini uomini forti, virili, cupi, dalle tendenze solitarie in un cinema “intelligente” e quasi mai intellettuale, votato all’azione più che al pensiero, scandito da un fatalismo oscuro che rimandava a un paese almeno nelle apparenze tradizionalista più che progressista e grave più che greve, il tutto indipendentemente dalla vocazione politica che prendevano le pellicole. Il suo volti più popolari, quella che meglio la rappresentavano, erano Jean Gabin e Gerard Philipe. Il primo non era molto versatile, né ammiccava ai gusti del cambiamento: volendo rappresentare sé medesimo, alla maniera dei divi americani, si era costruito un alone di imperturbabilità. Un ritornello che tornerà anni dopo con Delon, della stessa generazione dei “nouvellisti”, dei “moderni”, il quale eppure di moderno non ha mai avuto nulla, e dai nouvellisti è sempre stato scientemente evitato, imperitura testimonianza di un cinema francese alternativo alla Nouvelle Vague. Ma se appunto nella testa di chi usufruisce del cinema con disimpegno intellettuale la Francia è associata all’immagine del pensatore mite o della giovane donna acculturata, quali caratteri invece avvinghiano i suoi antieroi classici?

La poesia del realismo

Il primo grande scaglione che va considerato nell’epoca del sonoro è quello del Realismo poetico. Un cinema politicamente impegnato, molto vicino al Fronte popolare e dunque di sinistra, che trae elementi dal kammerspiel, il teatro tedesco e atmosfere del cinema nero americano. Gabin ne è assoluto protagonista, specialmente quando diretto da Marcel Carnè, l’esponente più virtuoso in fatto di regia, ma anche da Julien Duvivier che in Pepè le Moko trasforma il divo di Francia in un antieroe greco moderno, sofferente, sopraffatto dal dolore: è un ruolo cruciale non solo per la sua carriera, ma anche per il cinema europeo tutto; il suo bandito, protagonista della Casbah di Algeri, finisce per darsi la morte nel porto di Algeri e la pellicola “svolazza” negli Stati Uniti, lo rende mitologico anche oltreoceano. A Gabin- naturalista canonico ne L’angelo del male di Renoir- André Bazin, il grande tra i critici d’oltralpe, dedica pagine indimenticabili:

«Ora non dimentichiamoci che, nella tragedia e nell’epopea antiche, la collera non era uno stato psicologico bisognoso di una doccia fredda e della compressa di Gardenal, ma uno stato secondo, una possessione sacra, una breccia aperta per gli dei nel mondo degli uomini, dalla quale si intrufolava il destino. Così Edipo si fece da solo la sua sfortuna uccidendo sulla strada di Tebe, in un momento di rabbia, un carrettiere (suo padre) la cui faccia non gli piaceva. Gli dei moderni che regnano sulla Tebe suburbana con il loro Olimpo di fabbriche e i loro mostri d’acciaio aspettano, anch’essi, Gabin di fronte alla svolta della fatalità.»

Jean Gabin in “Alba tragica”

L’accostamento tra i due termini, il realismo e la poesia, offre già di per sé la chiave di lettura e l’essenza del movimento, il cui fascino nasce dallo stridere: il realismo rimanda alla durezza della vita nella società francese del tempo e non designa infatti personaggi borghesi, ma proletari e disperati in cerca di un posto nel mondo; alla nuditas del realismo la sceneggiatura affianca però la poesia, che a livello teorico ne è l’esatto contrario, il complementare. Ecco perché questo filone che domina gli anni Trenta non è incasellabile in maniera univoca come lo sarà, ad esempio, il neorealismo italiano. Alba tragica e il Porto delle nebbie sono i due film più significativi di Carnè. Ma Gabin è anche, per inciso, il protagonista de La grande illusione di Jean Renoir, per molti il più importante film francese del ‘900, l’apologo pacifista par excellence che evitando scientemente ogni retorica non esclude, di per sé, un discorso sociale sull’orgoglio di casta visto in chiave nostalgica più che polemica. Non a caso è un film sulla Grande Guerra, vero spartiacque della storia tra due mondi.

Ma dove allora ricercare questa “durezza” e virilità intrinseca al cinema francese antecedente alla Nouvelle Vague se, come fa pensare già l’aggettivo poetico, il cinema di Francia designa in fondo personaggi che si dimenano in un mondo che non è altro che una proiezione?

La durezza del Noir

Basti il nome di Jacques Becker. Sotto la direzione del padre di Jean escono nel 1954 e nel 1960 due film, Grisbi e Il buco, che necessitano poco o punto di essere raccontati; il primo segna anche il passaggio alla mezza di età di Gabin, che nel dopoguerra s’imborghesisce progressivamente, perdendo quel carattere del furore divino che nei ’30 lo aveva circonfuso. E tra questi due capolavori- un film classico di gangster sotto il segno della nostalgia e dell’amicizia virile e uno dei grandi drammi carcerari nella storia del cinema – nel 1955 un terzo cesella finemente il genere, Rififi di Jules Dassin. A capo del cast il belga Jean Servais col suo volto ruvido e una voce calda e baritonale dal sapore antico, rusticano e una sequenza di trenta minuti senza dialoghi che passerà alla storia. Non fa sconti a dialoghi incessanti né alla violenza il cinema cupo che nel bianco e nero tende ai toni scuri; il caso volle che anni più tardi Jean Pierre Melville, uno tra gli emergenti della Nouvelle Vague, disimpegnandosi dal movimento riprendesse sotto lo sguardo del Nero statunitense il genere, rarefacendolo al punto da renderlo di un’astrazione iperreale.

Questi tre film hanno in comune il fatto di designare, sopra ogni altra cosa, un certo milieu francese che va nella tipica descrizione di quella malavita che si è costruita un codice d’onore tale da farne risultare uomini a diciotto carati gli individui che le appartengono. Difficilmente si può immaginare una Francia che antecede i ’60 per archetipi diversi.

Eppure in tutto questo non si può pensare a un prima e a un dopo come in una cesura netta, un aut aut. D’altronde il viso più famoso di Francia nel primo dopoguerra è quello di Gerard Philipe, morto prematuramente di cancro senza compiere neanche quarant’anni: nei tratti melliflui portava la speranza e insieme il dolore della vita, l’intensità stendhaliana dell’eroe tragico. Ma la disperazione non certamente passava per parte sua dai lineamenti dell’uomo di vita e dell’uomo di strada.

E invero nella logica della “durezza” non sarebbe possibile d’altronde enumerare anche registi del calibro di Heny-Georges Clouzot e di Robert Bresson, il quale riduceva i codici alla sua maniera, capostipite in fondo d’una scuola minimalista tutta sua, inimitabile e solinga, non catalogabile.

Sono forse i registi René Clement e René Clair a far da bilancieri e a smarcarsi, col loro cinema autoriale denso di capolavori e di non capolavori memorabili, da tutto questo trambusto: non il realismo poetico né il noir, ma uno spaccato della storia di Francia attraverso le loro opere immortali, talvolta preludio di un cinema moderno che verrà, talvolta un tuffo nel passato. Sforzandosi di apparire nient’altro che loro stessi, in tutta tranquillità disegnano i colori del Paese della coccarda. D’altronde Delitto in pieno sole di Clement- il thriller con cui Delon fa saltare il banco, diventando un divo persino in Giappone- esce nel 1960, l’anno successivo di I quattrocento colpi, cioè lo stesso di Fino all’ultimo respiro, e siamo certi che a quasi sessant’anni non sia stato un colpo di fulmine al pari di questi nel cielo di Francia?