Ultimo baluardo del mondo liberale di fronte all’avanzata dei sovranismi o inamovibile guardiano dell’austerity? Leader europea e bandiera dell’europeismo o gelosa custode delle prerogative tedesche? Qualunque opinione si abbia della prima Cancelliera donna della storia della Germania, è impossibile negare ad Angela Dorothea Kasner in Merkel la palma di protagonista indiscussa dell’ultimo, burrascoso decennio europeo. Tanto più che del suo dominio incontrastato sulla politica tedesca (e non solo) conosciamo già la data di scadenza: nel settembre 2021 – ha annunciato lei stessa poco più di un anno fa, dopo la disfatta alle elezioni regionali in Assia – si ritirerà dalla vita politica. Intanto, sempre un anno fa, ha lasciato ad Annegret Kramp-Karrenbauer la guida della Cdu, l’Unione cristiano-democratica di cui è stata presidente per ben 18 anni. Quando si dice la fine di un’era.
Se – come previsto – il suo quarto e ultimo mandato arriverà a conclusione naturale, nel 2021 la “ragazza dell’est” eguaglierà il record di longevità di colui che finora era considerato il Cancelliere per antonomasia, quell’Helmut Kohl artefice nel ’90 della storica Riunificazione e di cui la giovane ricercatrice in chimica dell’Università di Lipsia fu a lungo pupilla e delfina prima di essere nominata ministra nei suoi ultimi due governi: prima “delle Donne e della Gioventù” e poi dell’Ambiente. Al contrario del suo mentore, però, sconfitto alle elezioni del 1998 dal socialdemocratico Gerhard Schröder, Merkel ha deciso, al pari di un pugile all’apice della carriera, di abbandonare la scena da imbattuta. E di farlo con largo anticipo, sperando così di mettere in moto per tempo nel partito un meccanismo di ricambio – generazionale e non solo – che a dire il vero sembra ancora di là da venire.
Qualche mese fa le è stato chiesto quali siano le caratteristiche indispensabili per un leader. Frau Merkel ha risposto: «realismo ottimista, gioia e curiosità nei confronti degli altri». Senza cedere agli allarmismi, senza gridare all’emergenza, senza addebitare ad altri i propri insuccessi. «Le insofferenze degli elettori vanno affrontate, se possibile curate – ha aggiunto – non sfruttate per il proprio tornaconto». Il riferimento, nemmeno troppo velato, è all’ondata di xenofobia montata nell’ultimo decennio anche in Germania. Ondata che la Kanzlerin ha tentato con determinazione di respingere, non cedendo – come invece ha fatto l’omologo Partito popolare austriaco – alla tentazione di flirtare con l’estrema destra nel tentativo di neutralizzarne l’ascesa. «Sono cresciuta fissando un muro – replicò nel 2014 al premier Orbán – e finché sarò viva farò di tutto perché non ne vengano costruiti altri».
Il «Wir schaffen das» («Ce la facciamo!») pronunciato nel 2015 all’apice della cosiddetta “crisi dei migranti” resta, non sappiamo quanto volontariamente, il suo manifesto più pop, declinazione in chiave umanitaria dell’obamiano «Yes, we can!» della fine del decennio precedente. Almeno a parole, sulla tanto vituperata Willkommenspolitik (la politica di accoglienza dei rifugiati) Merkel non ha mai indietreggiato di un passo, nonostante le resistenze degli storici alleati bavaresi della Csu e la crescita dei consensi di Alternative für Deutschland (AfD), il partito di estrema destra che alle politiche del 2017 sfiorò il 13%. Va però detto che, a fronte dei dati incontrovertibili che fanno della Germania per distacco il primo paese in Europa per richiedenti asilo accolti, ha prevalso negli ultimi anni una logica di limitazione del diritto d’asilo e di restringimento per legge della platea degli aventi diritto.
Ma la gestione dei flussi migratori non è l’unica materia in cui si accusa la cancelliera di non aver fatto seguire i fatti alle parole. I più europeisti tra i suoi connazionali le contestano un immobilismo alla lunga pernicioso per il futuro dell’integrazione, tanto che il verbo merkeln è entrato a far parte del vocabolario della lingua tedesca a indicare l’incapacità di prendere decisioni o di farsi un’opinione. In un curioso ribaltamento della percezione, la sua figura è stata invece dipinta in gran parte d’Europa, Italia in primis, esattamente agli antipodi: si sono sprecati in questi anni i fotomontaggi che la ritraevano munita di baffetti à la Hitler o con indosso la divisa delle SS, così come le filippiche contro la presunta predisposizione della Germania al dominio sul continente, di cui Angela Merkel sarebbe solo l’ultima rappresentante in ordine temporale. Attendista in patria, despota decisionista all’estero.
Nel 2011, il ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, europeista delle prima ora, disse di temere l’inazione tedesca più della sua azione. Parole pesanti, tanto più se pronunciate da un polacco, che misero in luce la paura diffusa che la Realpolitik di Merkel – attenta, com’è ovvio, a non intaccare gli interessi economici del paese con il surplus commerciale più elevato al mondo – potesse rappresentare un ostacolo più che uno stimolo al processo europeo. Fu proprio nel 2011, con l’emergere della crisi greca, che la Cancelliera evidenziò tutte le proprie contraddizioni e i propri limiti, cedendo per ragioni di consenso interno alle sirene dell’austerità e affidandosi alla rigidità di Wolfgang Schäuble. In molti, col senno di poi, le rimproverano di non aver avuto in quell’occasione il coraggio necessario a gestire la crisi sistemica dell’Eurozona attraverso un’evoluzione politica del progetto dell’Unione.
Una mancanza di coraggio e lungimiranza – si dice – che oggi l’Europa paga a caro prezzo. Certo: l’opinione pubblica tedesca, cui Merkel deve pur sempre rendere conto, non avrebbe accettato di buon grado la comunitarizzazione del debito o la creazione di un “super-ministro” dell’Economia. Certo: parte dell’immobilismo merkeliano affonda le proprie radici dell’architettura istituzionale della democrazia tedesca, progettata per scongiurare un’eccessiva concentrazione di potere nell’esecutivo. Ma è inutile nascondersi che, da statista quale ha dimostrato di essere, la delfina di Kohl avrebbe potuto osare di più. Perché nell’Europa in guerra col populismo, l’Europa della Brexit che si credeva impossibile e delle sfide improcrastinabili, non è più il tempo della prudenza. Non è più il tempo – per parafrasare James Clarke – di pensare alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni.