Come è stato mostrato nello scorso appuntamento della nostra rubrica, sebbene portino avanti traffici globali le organizzazioni criminali non rinunciano alla propria dimensione territoriale. Ciò che non è stato specificato, rimanendo sottinteso, è il fatto che per mantenere il controllo sulla suddetta dimensione esse erodono il tradizionale potere statale, sostituendosi ai governi nello svolgimento di mansioni quali la regolazione dei rapporti sociali, la mediazione tra le classi economiche, l’assistenzialismo. E nel farlo, spesso incontrano la indifferenza / connivenza di alcuni strati del mondo politico.
Com’è possibile che tutto questo avvenga non solo in paesi dove le strutture statali scarseggiano, ma anche in realtà ben più stabili? Per rispondere in maniera esaustiva e delineare così i tratti del parassitismo mafioso, è necessario analizzare due elementi in particolare: come le mafie infiltrano la sfera politica e come questa si interfaccia con le organizzazioni criminali.
Innanzitutto, è bene sottolineare un aspetto fondamentale: la criminalità organizzata non ha colore politico, né tantomeno un’ideologia alla sua base. Infatti, quando essa entra in contatto con la politica, sia questa rappresentata da un funzionario locale, un dirigente di partito, o un ministro, lo fa solamente per ottenere qualcosa in cambio e senza curarsi della frangia a cui appartiene la figura a cui si sta legando. A confermare la natura apolitica delle mafie è stato lo stesso il più famoso dei collaboratori di giustizia, Tommaso Buscetta:
Il secondo presupposto da chiarire è che alle mafie poco importa che uno Stato sia stabile o instabile, centralizzato e decentralizzato, democratico o totalitario: ciò che interessa alla criminalità organizzata è che sia presente una realtà sociale, politica ed economica da spremere a proprio piacimento. Gli obiettivi sono l’arricchimento e l’accumulazione del potere, sempre e comunque, e per perpetrarli la conformazione della struttura statale che si intende sfruttare non è di primaria importanza. Del resto è possibile trarre vantaggio da ogni situazione e i mafiosi, in questo, sono maestri.
Così, nel caso di uno Stato forte e prospero, la criminalità organizzata saprà beneficiare della sua ricchezza e dei servizi che i colletti bianchi sono in grado di offrirle. È il caso delle democrazie liberali diffuse nell’emisfero occidentale. Scrive a riguardo Wyn Rees, professore di International Security alla Università di Nottingham:
Inversamente, un paese instabile o dalla classe politica pressoché assente rappresenta un’occasione unica di infiltrazione diretta nei ranghi di governo, dando in questo modo vita a entità comunemente definite mafia states. L’esempio della Transnistria tra l’inizio degli anni Novanta ed il 2011, in questo senso, è illuminante.
Regione indipendente de facto dalla Moldavia, la Transnistria ha costituito e forse costituisce ancora oggi l’habitat di una vera e propria dinastia criminale. Dal 1991 infatti, Vladimir Smirnov, patriarca dell’omonima famiglia e primo presidente della Transnistria (in carica fino al 2011), ha fatto del proprio paese una delle più importanti basi del traffico illecito di armamenti di ogni tipo, conducendo gli affari in prima persona nel ruolo di leader politico, e coadiuvato dai propri figli e parenti. Un vero e proprio mafia state a conduzione familiare, insomma.
Le mafie, pertanto, possono infettare ogni tipo di realtà statale, a patto che vi sia margine di guadagno. Esse traggono vantaggio dalla loro incredibile capacità di adattamento grazie alla quale, in base alla situazione istituzionale in cui si trovano, sono in grado di individuare i settori ed i canali capaci di fruttare i profitti maggiori. Tale processo è reso possibile dal fatto che esse non ricercano lo scontro con lo stato, ma ne sfruttano la struttura, i flussi e la ricchezza. Alla criminalità organizzata transnazionale serve solamente una società in cui infiltrarsi, per rosicchiarne i frutti e in un secondo momento piegarla affinché soddisfi le proprie esigenze criminali.
Tale particolare forma di criminalità, agisce come una sorta di duplicato dello stato che aggredisce: come quest’ultimo, infatti, esercita il controllo sul territorio, vive del consenso della popolazione, forma un governo dirigente, e si dà un codice regolamentare ferreo. Uno ‘stato parallelo’ che non si pone in contrapposizione a quello ufficiale, ma che preferisce vivere sulle spalle di quest’ultimo nutrendosi delle risorse che produce ed erodendone quotidianamente il consenso presso la popolazione. Tale particolare forma di sfruttamento fa della criminalità organizzata di tipo mafioso, transnazionale e non, un parassita statale a tutti gli effetti.
Ma lo Stato come si pone dinnanzi a questi attacchi? Quali sono i reali rapporti che intercorrono tra gruppi criminali organizzati e politica? La risposta a queste domande non può essere unica, ma prevede inevitabilmente che vi siano molteplici sfumature a seconda del contesto in questione. Ciò che è certo è che un’organizzazione criminale di stampo mafioso non può esistere senza una dose di complicità da parte delle sfere politiche.
E’ bene precisare che la maggior parte degli stati investe ingenti risorse nel contrasto alla criminalità organizzata, e laddove determinate frange del potere decidono di collaborare con entità criminali sarebbe ingiusto incolpare l’intero apparato statale per gli errori di pochi.
Limitando la nostra analisi ai comportamenti e ai rapporti di questi particolari ambienti politici deviati, i gradi di connivenza e favoreggiamento possono variare dalla semplice indifferenza, alla totale fusione di obiettivi e individui tra mondo criminale e sfere governative. Purtroppo ciò che si evince dal lavoro degli studiosi e da un’analisi empirica delle realtà statali infiltrate dal fenomeno mafioso è che diversi governi hanno spesso preferito il dialogo allo scontro diretto, perpetrando un paradossale clima in stile Guerra Fredda, dove si sa chi è il nemico ma si preferisce non arrivare al conflitto, a meno che questo non sia inevitabile.
Questo modo ipocrita di interfacciarsi alla criminalità organizzata da parte di alcuni stati, ovvero il trattarla più come una concorrente nell’esercizio del potere e nella gestione delle risorse che non come una vera e propria minaccia alla democrazia, potrebbe spiegare la straordinaria longevità di determinate élite criminali. Ricercare un modo per convivere, quando non di cogestire, ha infatti legittimato l’attore mafioso offrendogli il modo, il tempo e talvolta anche quel supporto politico indispensabile per prosperare ed espandersi.
Che si tratti di simbiosi o anche solo di un semplice patto di non belligeranza tra ente criminale e potere statale, nel momento in cui questi due attori siedono allo stesso tavolo per discutere, il primo ha già vinto sul secondo; ogni volta che un funzionario pubblico accetta una tangente, significa che lo Stato ha perso parte della propria sovranità a favore di un potere informale e invisibile che si è dimostrato più forte e più attraente di lui. Ogni volta che qualche governo rinuncia allo scontro, nutre quel subdolo parassita che è la criminalità organizzata e affama sé stesso, la propria società, il mondo intero.