«Nella politica italiana non perde mai nessuno. Io sono diverso e l’esperienza del mio governo finisce qui». Nella tarda serata di tre anni fa un Matteo Renzi provato e a tratti commosso si presentava in conferenza stampa per annunciare che, alla luce della vittoria del “no” al referendum costituzionale da lui promosso, la settimana successiva sarebbe stata la sua ultima a Palazzo Chigi, dopo più di mille giorni. Un discorso di commiato che lì per lì gli valse l’onore delle armi: plausi alla sportività e al rispetto dimostrato nei confronti delle istituzioni si levarono anche da giornali e personalità storicamente tutt’altro che morbidi con l’ex premier. Farsi da parte – non scordò di far notare l’ex sindaco di Firenze – non è cosa da tutti nell’agone della politica nostrana. Se non fosse che, a voler essere malevoli, è stato poi lo stesso Renzi a dimostrare quanto rara fosse la merce in questione.
Nel triennio successivo alla débâcle referendaria, il presidente del Consiglio più giovane della storia ha nell’ordine:
- vinto nuovamente le primarie del Partito democratico, riprendendosi ad aprile 2017 il posto da segretario lasciato a febbraio;
- guidato il partito alle elezioni politiche del 2018, le prime in cui i dem sono scesi sotto la soglia del 20%;
- favorito, grazie al suo peso all’interno dei gruppi parlamentari del Pd, la formazione del Conte-bis nell’estate del 2019;
- fondato, appena due settimane dopo il giuramento del governo “giallo-rosso”, un nuovo partito, Italia Viva.
Da ultimo, ha sfidato l’omonimo leader della Lega a duello, in un faccia a faccia tv come non se ne vedevano da tempo, letto da molti come un tentativo da parte di entrambi di “oscurare” l’esecutivo Conte: che i “due Mattei” abbiano bisogno l’uno dell’altro per affermarsi e legittimarsi è convinzione diffusa. Ma come si è giunti a questo punto?
Il referendum più esiziale degli ultimi quarant’anni – è bene ricordarlo – verteva sul disegno di revisione costituzionale cosiddetto “Renzi-Boschi” che prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto con la trasformazione del Senato in una camera delle Regioni sul modello del Bundesrat tedesco, la soppressione del Cnel e una complessa revisione del Titolo V della Carta su cui non ci dilungheremo. A essere criticato, oltre alla riforma in sé, fu il “combinato disposto” tra quest’ultima e la nuova legge elettorale varata nel maggio 2015, denominata Italicum e valida per l’appunto solo per la Camera dei deputati. Un maggioritario a doppio turno con premio di maggioranza pari al 55% dei seggi – dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 2017 – che, alla luce della suddetta riforma, avrebbe di fatto garantito la maggioranza assoluta dei seggi alla lista più votata al ballottaggio.
Un progetto, si disse allora, nemmeno troppo machiavellicamente messo in campo da Renzi per assicurarsi un agevole trionfo elettorale alle elezioni seguenti. Quanto agevole è difficile a dirsi: vero è che l’ultimo test nazionale precedente al referendum erano state le Europee del 2014, quelle dello storico 40,8%, ma i sondaggi delle ultime settimane precedenti al voto del 4 dicembre davano il Pd appena sopra al 30% (tallonato a meno di un punto dal Movimento 5 stelle) e, nell’ipotetico ballottaggio previsto dall’Italicum, il premier in carica non avrebbe avuto vita facile contro l’allora vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, allora in evidente e costante ascesa nei consensi. Curioso notare come a tre anni di distanza un fantapolitico doppio turno tra le due liste più votate vedrebbe invece il Pd di Nicola Zingaretti vittima sacrificale della Lega. Non più Nord ma sempre più salviniana.
Già, la Lega. Nel suddetto sondaggio Swg che dava Pd e 5 stelle appaiati attorno al 30%, ancora ai tempi del “Nord” nel simbolo, compiva il primo, timido allungo sugli alleati di Forza Italia: 12,8% contro 11,5%. Allungo che 15 mesi dopo risulterà decisivo e che frutterà a Salvini la leadership di un centrodestra che da allora sarà sempre più destra e sempre meno centro e in cui ora anche i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, stimati attorno al 10%, rischiano di doppiare quel che resta del partito di Silvio Berlusconi. Un ribaltamento dei rapporti di forza all’interno della coalizione semplicemente impensabile fino a tre anni fa, appunto, come testimonia il fatto che ora è il “Capitano” a spingere a favore di una legge elettorale maggioritaria e il “Cavaliere” a frenare e a rivalutare il proporzionale. Fatto sta che ora, in virtù del Rosatellum, i tre partiti insieme sarebbero vicini al jackpot.
Per un Salvini che tre anni fa tuonava contro «il pensiero unico e la precarizzazione di tutto» e ora si ritrova nell’invidiabile posizione di costringere gli avversari a una convivenza tutt’altro che pacifica pur di non vederlo a Palazzo Chigi, c’è un Luigi Di Maio che la sera del 4 dicembre 2016 si diceva pronto a mettersi subito al lavoro per «creare la squadra del futuro governo 5 stelle» e che ora che al governo c’è (non da solo) non disdegnerebbe essere altrove. Un triennio, insomma, in cui abbiamo visto tutto e il contrario di tutto: la Lega passare da riottoso alleato di Forza Italia a sua ancora di salvezza, il Movimento 5 stelle contravvenire non una ma due volte al dogma del “nessuna alleanza” e da ultimo Renzi fuoriuscire dal partito che lui stesso aveva portato prima al suo massimo e poi al suo minimo storico. A ben vedere, sembra questa l’unica tendenza destinata a non mutare.