L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.
Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.
Nel sesto e ultimo appuntamento di questa nostra indagine proviamo a tirare le somme e a capire, attraverso l’analisi dei dati, se a 30 anni dalla sua formulazione il 41-bis rappresenta ancora uno strumento efficace nella lotta alle mafie.
Sebbene il quesito, date le sue molteplici sfaccettature, non possa presentare una risposta univoca e netta, l’opinione pubblica appare piuttosto schierata circa l’utilità del “carcere duro”. Stando ai dati raccolti da Termometro Politico lo scorso febbraio a seguito dello scoppio della vicenda Cospito, quasi tre italiani su quattro si dicono favorevoli al 41-bis, con un quarto degli intervistati che addirittura vorrebbe un ampliamento del suo utilizzo in funzione antimafiosa. Solo il 4.2%, invece, pensa sia uno strumento da abolire.
Una posizione netta, presente anche nei risultati di un precedente rilevamento realizzato da Lavialibera nel 2020. In quell’occasione agli intervistati venne richiesto di indicare da 1 a 10 quali tra le misure antimafia percepissero come più efficaci: il “carcere duro” ottenne per distacco i voti più alti.
Mettendo da parte il sentire comune però, dare una risposta supportata da dati certi risulta quanto mai arduo. Questo è dovuto al fatto che è praticamente impossibile stabilire una diretta correlazione tra applicazione del 41-bis e diminuzione dei fenomeni mafiosi, a prescindere da quanto vi possa essere una simile percezione tra la popolazione.
Prendendo nuovamente i dati forniti dal DAP, ad esempio, dal 2008 al 2022 il numero di detenuti in regime di “carcere duro” è aumentato a livello generale del 37%, con un incremento del 31% fra i camorristi, del 35% tra gli affiliati a Cosa Nostra e di oltre il 103% tra gli appartenenti alla ‘ndrangheta. Proprio quest’ultima però, come confermato trasversalmente da tutti i più recenti rapporti della DIA, costituisce l’organizzazione criminale in maggiore ascesa da almeno due decenni a questa parte.
In altre parole, i dati suggerirebbero che la ‘ndrangheta sia cresciuta e si sia espansa nonostante venisse combattuta aspramente (anche) attraverso l’applicazione del “carcere duro” ai suoi affiliati. Si tratta tuttavia di una conclusione affrettata e superficiale che non corrisponde alla realtà. Più semplicemente, gli ultimi anni hanno visto un aumento delle indagini e dei processi a carico della ‘ndrangheta dovuto alla sua maggiore esposizione a seguito del declino di Cosa Nostra.
Con tutti i limiti che presenta, e nonostante l’impossibilità a misurarne l’incisività, non c’è dubbio che il 41-bis rimane centrale nel contrasto alla criminalità organizzata calabrese e al resto delle cosche nostrane, come confermano i ciclici tentativi da parte dei mafiosi a ogni latitudine di far rimuovere questo speciale regime di detenzione.
Tuttavia, non poterne valutare empiricamente l’efficacia, dovrebbe farci riflettere sull’”attaccamento morboso” che gran parte dell’opinione pubblica, della politica e del movimento antimafia mostrano di avere nei confronti di questo strumento a prescindere da tutto, anche quando arriva a minare i diritti di un detenuto. Perché per combattere la mafia tutto è lecito. Perché, in fondo in fondo, un mafioso se lo merita.
Di attaccamento “morboso” parlò 3 anni fa anche l’allora direttore del DAP Cesare Basentini, che in un’intervista a Lavialibera disse: “Sono convinto dell’utilità dell’istituto, che va salvaguardato, ma non bisogna abusarne. Invece nei suoi confronti c’è spesso un attaccamento morboso, quindi sbagliato. Oggi i condannati al 41-bis ci rimangono a vita e non tutti hanno un’alta caratura criminale. Bisognerebbe essere più elastici e permettere a coloro che dimostrano di essersi ravveduti di non essere più sottoposti al regime speciale. È un meccanismo che da magistrato ho alimentato anch’io, ma da direttore del Dap mi sono reso conto che determina un paradosso: si creano liste d’attesa e la mancanza di posti impedisce di destinare al 41-bis delle persone per cui l’esigenza è reale”.
Se un tempo il prefetto fascista Cesare Mori decise di aggredire la mafia con ogni mezzo, agendo come il “più mafioso tra i mafiosi” e utilizzando la violenza invece del diritto per raggiungere i propri scopi, oggi sembra esserci una volontà simile nel portare avanti l’idea di un carcere che deve essere il più duro tra i duri. Prendendo in prestito dalle pagine de il Riformista le parole di Andrea Pugiotto – professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Ferrara e Coordinatore del Dottorato di ricerca in Diritto Costituzionale – per quanto questa volontà possa apparire largamente diffusa e di facilissimo consenso, “non può però essere la tesi di uno Stato di diritto, dove la pena dovuta è la pena giusta, e la pena giusta è solo quella conforme alla Costituzione”.
Se è plausibile pensare che non si arriverà mai a una posizione unanime circa la legittimità del 41-bis, ciò che è in nostro potere fare è analizzare la norma nel suo complesso, attraverso un costante studio dei dati, esaltandone i punti di forza e condannandone sinceramente i limiti quando arriva a ledere i diritti dell’uomo e le libertà costituzionali di un individuo. A prescindere dai crimini che può aver commesso. Diversamente, continuando a difenderne ciecamente ogni aspetto in nome della lotta alla criminalità organizzata, agiremmo anche noi come i “più mafiosi tra i mafiosi”. E penso non esista insulto peggiore, specialmente per chi si considera tenacemente un antimafioso.