L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.

Alfredo Cospito - Il 41 bis funziona davvero?
Alfredo Cospito prima e dopo lo sciopero della fame che ha condotto per oltre sei mesi per protestare contro l’ergastolo ostativo e il 41-bis, due regimi detentivi diversi tra loro cui è sottoposto.

Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.

La foto segnaletica di Matteo Messina Denaro, scattata dalle autorità a seguito del suo arresto avvenuto il 16/01/2023. Era latitante da oltre 30 anni.

Nel quinto e penultimo appuntamento di questa nostra indagine andiamo ad analizzare il difficile rapporto tra 41-bis e diritti umani.

Tra scopo esplicito e implicito: il 41-bis e i diritti umani

È palese, difatti, che un detenuto al 41-bis incontri maggiori difficoltà rispetto a un criminale comune a godere di una serie di diritti fondamentali. A tal riguardo, Alfredo Cospito ha deciso di condurre uno sciopero della fame per oltre sei mesi, per denunciare quella che ritiene una violazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione, che sancisce il diritto a ricevere un trattamento detentivo umano che tenda alla rieducazione sociale del condannato.

La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Vi è poi il diritto fondamentale alla salute. Nel 2018, per esempio, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò il nostro Paese per aver confermato il “carcere duro” a Bernardo Provenzano sino alla morte, nonostante le condizioni di salute del boss, ormai vecchio e gravemente malato. In quel caso la Corte di Strasburgo imputò all’Italia la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, riguardante la proibizione di trattamenti inumani o degradanti.

Tre anni più tardi, nel 2021, a fare scalpore furono le condizioni in cui morì il fondatore e capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. Dopo aver visto respinti il reclamo contro la proroga del 41-bis e la richiesta degli arresti domiciliari nonostante gli evidenti problemi di salute e l’imperversare del Coronavirus, Cutolo decedé nella sezione detenuti dell’ospedale di Parma all’età di 79 anni – dopo averne spesi oltre 25 al “carcere duro”. Secondo i suoi legali era arrivato a pesare 40 kg, oltre ad essere affetto da diabete, artrite e prostatite.

Interpellato dal quotidiano il Riformista, uno dei legali di Cutolo disse: “Questo provvedimento dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto”.

Vi è infine il diritto alla famiglia. Per quanto questo possa essere comprensibilmente limitato a causa della natura del fenomeno mafioso – che ha nel vincolo familiare uno dei suoi punti cardine – è un dato di fatto che sia difficilissimo viversi i propri cari quando viene concessa un’unica visita al mese, di un’ora soltanto e mediante un vetro divisorio. Si tratta di 12 incontri l’anno senza contatto contro i 72 previsti per i detenuti comuni, ai quali non viene applicata alcuna restrizione qualitativa del colloquio.

Senza contare che, laddove un detenuto decida di collaborare così da ottenere la possibilità di godere maggiormente della propria famiglia, non è detto che quest’ultima sia disposta ad accettarlo. È il caso di Gaspare Spatuzza, uno degli uomini di mafia più efferati e famosi, che dal 2008 ha deciso di collaborare con le autorità fornendo importantissime rivelazioni che hanno portato a ribaltare le sentenze in merito all’omicidio di Paolo Borsellino. La sua decisione di collaborare con le autorità non ha infatti incontrato i favori della moglie che, per timore di ripercussioni da parte degli ex-consociati del marito, ha preferito prendere le distanze insieme ai figli e abbandonarlo.

Oltre ai diritti a un trattamento umano destinato al reintegro nella società, alla salute e alla famiglia, ve ne sono certamente molti altri che inevitabilmente cozzano con il regime detentivo speciale previsto dal 41-bis. Ad esempio, un diritto spesso dimenticato quando si parla di detenuti al “carcere duro” – ma non solo – è quello alla sessualità.

Se fare l’amore è proibito a tutti i detenuti, praticare l’autoerotismo sembra essere particolarmente difficile per i reclusi al “carcere duro”. A causa dei limiti imposti da questo tipo di regime detentivo sono molteplici le difficoltà che si incontrano nell’ottenere oggetti da custodire in cella, figurarsi quelli di natura sessuale. Così può succedere che a un detenuto venga negata la sottoscrizione a una rivista pornografica per il timore che questa possa contenere messaggi criptati. Del resto, come richiesto dal DAP al Tribunale di sorveglianza, “la visione di immagini pornografiche non appare essenziale all’integrità della sfera sessuale e all’equilibrio psicofisico della persona”. Insomma, se proprio desideri masturbarti, accontentati dell’immaginazione.

Abbiamo ripercorso la storia del 41-bis, analizzato la natura più o meno esplicita dei suoi scopi e constatato infine una parziale dicotomia tra “carcere duro” e diritti umani. A questo punto della nostra indagine, se vogliamo fare un discorso costruttivo su questo istituto la domanda conclusiva deve necessariamente essere una e una soltanto. A fronte delle restrizioni, delle sofferenze e delle polemiche che si porta dietro, dei limiti evidenziati in merito al reale soddisfacimento dei suoi scopi, ciò che bisogna chiedersi è: il 41-bis rappresenta, comunque, uno strumento efficace nella lotta alle mafie?

Proveremo a rispondere nell’ultimo episodio di questa lunga inchiesta. Appuntamento alla prossima settimana!