A cura di Giacomo Somazzi
Parte III: la caduta
Nel 1960 la produzione cinematografica italiana è al culmine della sua parabola: i film realizzati sono 161, di cui 66 coproduzioni, l’esportazione ha superato i 20 milioni di dollari e i biglietti venduti sono stati 800 milioni. Ciononostante ci sono già i segnali di una crisi che segnerà un declino irreversibile del nostro cinema, anche se ancora oscurati dall’euforia artistica e produttiva degli anni Sessanta. L’inizio di questa crisi è la sfavorevole congiuntura economica al termine del boom economico del dopoguerra, a cui poi seguiranno la concorrenza del mercato televisivo e la mancanza di una nuova legge che tenga conto dei mutamenti in atto nel cinema e nella società italiana.
Nel 1965 si passa dai 214 film prodotti l’anno precedente a soli 121, praticamente la metà. Come se non bastasse, l’avvento e la veloce diffusione della televisione ha portato una riduzione degli spettatori nelle sale e al contempo una ridefinizione del gusto e del lessico visivo del pubblico. Il cinema inizia a perdere il ruolo di contenitore dell’immaginario collettivo, lasciando questo compito anche alla televisione. A metà degli anni sessanta chiude anche la Titanus, la più grande casa di produzione italiana, a causa di film enormi e costosissimi che si sono poi rivelati dei flop al botteghino: come Sodoma e Gomorra (Aldrich e Leone, 1962) e Il gattopardo (Visconti, 1963).
Eppure per tutto il decennio si respira un’aria di ottimismo, grazie soprattutto al fermento culturale e creativo di un folto gruppo di registi e sceneggiatori, sia veterani che alle prime armi, capaci di produrre alcuni tra i film più importanti della storia del cinema italiano e mondiale. Impossibile non citare Fellini che con Otto e ½ (1963) raggiunge la vetta della sua carriera e della sua notorietà anche a livello internazionale. Oppure Visconti che, oltre al già citato Il gattopardo, con Rocco e i suoi fratelli (1960) si conferma uno dei cineasti italiani più importanti ed apprezzati. E infine De Sica con La ciociara (1960), Comencini con Tutti a casa (1960), Michelangelo Antonioni con la trilogia composta da L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), Dino Risi con Il sorpasso (1962), Francesco Rosi con Le mani sulla città (1963), Pontecorvo con La battaglia di Algeri (1966) e molti altri. Debuttano giovani registi provenienti dagli ambiti più disparati come Pier Paolo Pasolini, Elio Petri, Ettore Scola, Ermanno Olmi, i fratelli Taviani, Vittorio De Seta, Bernardo Bertolucci e Sergio Leone. I vivaci e fecondi anni ’60, anche a causa della crisi che si andò man mano a inasprire, rimasero solo un periodo felice ma purtroppo isolato, che non poté più ripetersi nei decenni a venire e che terminò definitivamente quando si spensero i grandi registi: la generazione attiva sia durante che dopo la guerra, quella di Rossellini, De Sica e Visconti, se ne andò verso la metà degli anni ’70. Altri, tra i quali Fellini, ci lasciarono all’inizio degli anni ’90. Parallelamente si verificò un processo irreversibile di perdita d’importanza del mercato italiano, poco alla volta ridotto a mero consumatore di prodotti cinematografici e televisivi americani.
Le sale si svuotarono progressivamente, con la fatica dei produttori nel girare nuovi film, specialmente se diretti da registi esordienti; nel frattempo è la televisione a conquistare sempre più pubblico, anche per via dell’introduzione dei film registrati su videocassetta. Nella profonda trasformazione dell’industria culturale, il cinema non è più il luogo per eccellenza del rito laico più importante, né un bene di prima necessità: anno dopo anno decine di milioni di spettatori cominciano a disertare e a dirigere altrove consumi e tempo libero. La grande parabola del cinema italiano è giunta alla fine.