Spoiler alert: Con “cultura non binaria” non intendo parlare di questioni legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere.
Uno dei libri che ha più condizionato il mio pensiero critico negli ultimi anni dopo Il medium è il messaggio di Mcluhan è stato Elogio dell’ozio Bertrand Russell. Quest’ultimo è un manuale divulgativo di sociologia che offre una panoramica generale di cosa è il lavoro nell’universo del capitalismo. Nonostante sia stato scritto nel 1935, quindi prima Thatcherismo e del liberalismo “non sense all’italiana”, rappresenta un pilastro importante per capire da un punto di vista sociologico come funziona la cultura dentro il sistema capitalistico. Sono tutte nozioni che le università non insegnano o meglio non le scuole creative da cui provengo io non insegnano, vuoi perché spesso non si ha tempo, vuoi perché il focus di queste scuole è totalmente sulla creatività.
Ho iniziato a leggere Elogio dell’ozio qualche estate fa, trovato per puro caso e a pochi euro in un mercatino. Più leggevo e più mi appassionavo, perché sentivo che dentro di me che quello che diceva era il tassello che mancava alla mia cultura generale, che Ovviamente non è fatta di sola Pubblicità.
La cosa che mi ha più colpito, è stato di aver scoperto che gran parte della nostra cultura (sia personale che di massa) è finalizzata esclusivamente al lavoro e alla produzione. “Devi apprendere questa nozione perché un giorno sarà funzionale lavoro”. Ovviamente non c’è nulla di male in questo ma, alla lunga e con altre possibili pandemie, è limitante.
Il limite di questo paradigma e che non tiene conto della felicità e del benessere psicofisico di ogni individuo. Perché secondo la dottrina che si è sedimentata nei secoli il lavoro deve essere per forza noioso, pesante e fatto mal volentieri. Se ti diverti, non stai veramente lavorando. Stai praticando un hobby. Per troppo tempo questo è stato il paradigma. Generando non solo malessere incondizionato nelle persone, ma anche una mediocre qualità del lavoro prodotto stesso. Un lavoratore sereno produrrà di più e meglio.
Questo paradigma funzionale della conoscenza può essere riassunto con la definizione di cultura binaria. Ovvero: conosco solo l’indispensabile che mi serve alla produzione di un bene o un servizio. Come già detto, tutto quello che è fuori da questo binomio vive una continua demonizzazione da parte della società e della morale. Come se essere felici e dedicare del tempo all’ozio non facessero parte del nostro DNA sociale che ci ha portato ad essere degli homo sapiens.
Manca spesso la leggerezza legata a buone dosi di ozio. Un volta l’ozio era sinonimo di benessere economico e di uno status sociale superiore. Oggi la nostra società ha smesso di contemplare l’ozio da quando siamo diventati iper-connessi, raggiungibili in ogni momento. Oggi l’essere ricercati e “stare sempre sul pezzo” significa avere un alto valore di mercato.
La totalità della delle idee creative è stata prodotta in momenti di ozio. Che spesso si traduce in musica, spot pubblicitari, libri, opere teatrali, eventi o in invenzioni che hanno cambiato la storia del mondo. Il cervello nei momenti di ozio si sente più libero di spaziare, i nervi si rilassano. Il sangue si ossigena bene e iniziamo a produrre tutte quelle sostanza che ci fanno stare bene: serotonina, ossitocina, dopamina. Poi le cose si fanno sempre in due: ad un certo punto interviene un “contro pensiero” più razionale che fa emergere le conclusioni finali e agisce come il rasoio di occam, cercando la sintesi e traducendo tutto dentro un filo logico. Quando parliamo di creatività dimentichiamo che il fine ultimo di essa è di produrre soluzioni concrete. Se questo non avviene è solo un esercizio di fantasia, fine a se stesso.
Spesso mi sono sentito dire di essere fortunato perché faccio un lavoro che mi piace e che la mia passione è anche il mio lavoro. Ma la gente dimentica che per arrivare a guardare dei bei paesaggi di montagna spesso ci si infila in sentieri in salita dove per lungo tempo non si vede il sole. La creatività è proprio questo, sudore e rigore. Come se si scalasse una montagna sperduta.
Sia Bertrand Russell che il lungo lockdown mi hanno ispirato e portato a pensare ad un nuovo modo vedere le cose, una sorta di bipensiero orwelliano ma applicato al mondo della creatività. Un approccio capace di far convivere uno o più pensieri opposti e contrastanti e che mi portasse ad una più ampia visione delle cose, senza mai perdere il gusto. Per usare una metafora culinaria una sorta di Umami, quel quinto sapore tanto caro alle cucine asiatiche, in grado di esaltare il gusto delle pietanze e delle cose che faccio come Pubblicitario. Ovvero la cultura non binaria.
Il piacere della scoperta, la curiosità, unito alla voglia di imparare sempre cose nuove per il puro gusto di farlo senza che queste siano funzionali al lavoro. Che poi a dirla tutta, se fai il Pubblicitario ogni nozione e/o esperienza è funzionale al tuo lavoro, però questo è un altro discorso. Il mio approccio vuole essere aperto non solo alla creatività ma a tutte quelle attività ripetitive e apparentemente noiose. Avere un approccio “non binario” può essere il paradigma ideale per questi tempi. Utile per non morire mai di noia e tener vivo il sacro fuoco della curiosità.
Questa pandemia ci ha insegnato che da qualche parte bisogna iniziare a cambiare paradigma. Il sistema socio-economico in cui siamo abituati va migliorato perché non è più sostenibile e non rappresenta più la realtà. Avere un approccio “non binario” alla conoscenza serve per arricchire tutte quelle soft skills che ogni persona ha e che sono un patrimonio incredibile in grado di far la differenza al pari delle hard skills.