Oggi si parla molto di parità di genere, ma le parole sfumano quando si pensa ad uno dei luoghi cardine in cui la donna troppo spesso è impotente: il luogo di lavoro. Qualifiche, competenze, esperienza, nulla possono contro i dogmi ancora troppo solidi all’interno della maggioranza delle realtà aziendali. Neppure quell’empatia che tradizionalmente viene attribuita all’essere femminile, può smuovere quella coscienza patriarcale che regna ancora indiscussa nel panorama professionale del nostro Paese. Forse, l’unico modo per rinsavire e scuotere le coscienze una volta per tutte è raccontare, testimoniare, portare l’esempio, in un mondo che parla, ma non agisce mai.

Non è solo lavoro

In Italia ci piacciono le tradizioni, anche quelle cattive. Ed ecco che ci troviamo a passare in ufficio la maggior parte del nostro tempo. Mano a mano, i colleghi diventano una sorta di famiglia (che ci piaccia o meno), la nostra scrivania un piccolo spazio intimo. Una piantina, la foto del nostro cane, bigliettini, la nostra agenda che si è trasformata nella Bibbia del giorno feriale, che di feriale non ha nulla.

Abbiamo una o due lauree alle spalle, una discreta esperienza e ci piace l’idea di poter fare carriera. Ci applichiamo, sforiamo l’orario di lavoro per far notare quanto siamo meritevoli (altra bella tradizione tutta italiana) e ci rendiamo estremamente disponibili, dicendo sempre di sì.

Chi non premierebbe una talentuosa donna sulla trentina che ha voglia di darsi da fare?

Una donna alla sua scrivania. ThisIsEngineering/Pexels

Accudire il lavoro

Sì perché non sempre le donne vogliono diventare madri, e preferiscono dedicare tutte le loro energie a quello che una volta si chiamava “fare carriera”. Ossia adoperarsi per crescere professionalmente, arrivando ad ottenere maggiori responsabilità, ruoli di rilievo e uno stipendio più consistente.

Ecco quindi che, così come si parla spesso di discriminazioni professionali per le donne che vogliono un figlio, oggi si parla sempre più spesso anche di quella categoria che invece un figlio non lo vuole, ma che comunque si scontra quotidianamente con la mancanza di considerazione professionale.

La difficoltà più grande di queste donne è farsi prendere sul serio in un ambiente spesso maschilista, dove le donne sono relegate a ruoli secondari, inchiodate a quello stereotipo vecchio di cinquant’anni, dove la giovane in ufficio era la “segretaria”. La serie televisiva Mad Men è ambientata negli anni ’60 eppure le cose non sono cambiate molto.

Promo per la serie Mad Men su FX Channel

Avere un figlio e scegliere la carriera sono decisioni spesso non facili per una giovane donna, anche se non dovrebbe essere così. Una professionista resta tale anche dopo essere diventata madre e una professionista ha bisogno anche di spazio per coltivare i suoi interessi, che magari non sono una progenie numerosa. Ma dopo aver scelto cosa fare nella propria vita, non senza costrizioni e ripensamenti, sono tantissime le sfide che si pongono in un ambiente aziendale per una risorsa femminile. È un cerchio senza fine.

Malumori pandemici

In una situazione di grande difficoltà per le donne lavoratrici, si è aggiunta la pandemia di COVID-19. Nell’Ottobre di quest’anno a Roma, si è tenuto il convegno Acli “Donne, lavoro e pandemia”, durante il quale è emerso un aspetto indirettamente legato al lavoro femminile. È vero, la categoria è già fragile, ma è ancora una volta vittima degli stereotipi culturali e sociali.

La donna infatti è tradizionalmente incaricata della cura dei membri della famiglia: se i figli stanno male è la madre che deve prendersene cura, secondo il dogma che incastra ogni donna in una routine familiare scomoda e frustrante.

Persino lo smart working, che un inizialmente sembrava la risposta a tutti i problemi di pendolari, madri e lavoratori in genere, si è rivelata con il tempo una gabbia da cui è difficile uscire. Ancora troppe donne inoccupate o che si trovano costrette a lasciare la carriera per la famiglia. Paola Profeta, docente di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi, spiega che l’84% delle donne è impiegato nel settore dei servizi, il che ha causato enormi problemi durante la gestione dei periodi di quarantena di bambini e ragazzi. Tanto, che abbiamo assistito recentemente ad una She-session, ossia una recessione al femminile.

Integrazione difficile

Ma anche per le donne che a lavoro hanno continuato ad andarci, non è stato facile trovare una occupazione o reinserirsi. Secondo il Sole24 Ore, nel Settembre 2020 le nuove assunzioni femminili risultavano ancora in calo di 38 mila posizioni, mentre le posizioni maschili registravano già un incremento. “Dal 4 maggio al 30 settembre 2020 sono rientrati nel mercato del lavoro 67 mila persone che avevano perso la propria occupazione durante il periodo dal 1 febbraio al 3 maggio. Ma solo il 42,2% delle donne ha goduto di questa possibilità.”

Insomma la pandemia ha solo peggiorato una delle realtà che nel nostro Paese è difficile accettare. Si fa più fatica ad assumere una donna e soprattutto non la si vuole pagare come un uomo, men che meno darle una mansione di responsabilità.

L’esercito delle signorine

Ma una volta superato il grande ostacolo della nuova assunzione, una volta dentro, c’è ancora una grandissima, enorme sfida. Farsi prendere sul serio.

Forse questa è la più ardua da affrontare per una donna, in quanto non è tangibile, non puoi registrarla, non puoi certificarla. Lo Stato non può convincere un capo a trattarti come meriti professionalmente e umanamente. È una sfida culturale e sociale, non c’entrano leggi e istituzioni, anche se la Costituzione parla bene di eguaglianza.

Le famose “signorine” che anche se possiedono due lauree, specializzazioni e pubblicazioni, non saranno mai chiamate Dottoresse. Impiegate con anni di esperienza alle spalle e competenze, che si trovano a preparare i caffè per i colleghi maschi. Donne assunte per ruoli di coordinamento e rilevanza che si trovano a riordinare gli uffici, comprese le scrivanie dei colleghi perché “Sbrigati sta arrivando un cliente”. E poi la classica, fatidica frase: “Signorina sorrida che è più bella quando lo fa.”

Donne discriminate perché donne, non certo per qualità professionali assenti. Come dimenticare la testimonianza di Rebecca Mordechai, che al suo colloquio come insegnante di inglese si è sentita dare consigli sulla sua acconciatura e sul suo aspetto fisico. Il suo caso finì anche in un articolo su Vanity Fair nel 2019.

Senza iniziare neanche ad enunciare le numerose situazioni di molestia di vario tipo e gravità, come essere messa da parte, in virtù di un collega maschio, si tratta di una situazione di grande frustrazione che troppo spesso non si collega alle reali capacità della dipendente.

Difficili soluzioni

Anche trovare una soluzione è difficile: nel proprio piccolo le donne possono solo provare a farsi valere, a rispondere, a sollevare questioni, col rischio spesso di risultare polemiche, “isteriche”, problematiche ai colleghi più ottusi.

Neanche sfogarsi con i colleghi aiuta, spesso le coltellate alla schiena arrivano proprio da lì. Le istituzioni non possono certo intervenire. Nei pochi casi previsti dalla legge, le donne devono armarsi di registratori, raccolte, diari, foto, casi, denunce e non basta neanche questo. La radice del problema è dove sta la sua soluzione: la società.

Samantha Cristoforetti nella cupola della Stazione Spaziale Internazionale, NASA/Wikimedia Commons

Oggi abbiamo esempi grandissimi di donne che sono riuscite a farsi prendere sul serio sul luogo di lavoro: Samantha Cristoforetti, Paola Enogu, Milena Gabanelli, Giovanna Botteri e moltissime altre donne. Ogni giorno contribuiscono al miglioramento della nostra vita, del mondo e della società.

Ad oggi è questa l’unica soluzione plausibile: la testimonianza vincente di donne come loro che possono, nel tempo, far crescere la consapevolezza della società che in fondo un problema vero esiste. Che ci sono donne frustrate perché non riescono a far sentire la loro voce, che vorrebbero essere messe alla prova, far vedere che loro sì, sanno fare e possono fare, come sa e può un uomo. E che non sono polemiche o isteriche, che non devono sistemarsi i capelli e il rossetto per avere un senso in una realtà aziendale. Che devono, come un uomo, essere misurate solo per il loro valore professionale, come tutti questi begli esempi, anche loro, nel piccolo della loro vita quotidiana.