L’acqua (luogo della dimenticanza) è legata all’immagine narrativa del mare, il luogo della totalità delle strade possibili, il groviglio labirintico di strade in cui ci si perde. E solo quando si decide una rotta, ossia quando facciamo una scelta e la perseguiamo, ci riappropriamo del nostro tempo lineare del progettare.
Infatti è proprio il navigare per mare la vera sofferenza di Ulisse: l’incapacità di accettare di vedere davanti a sé la distesa salata percorsa da infinite strade, sceglierne una, guardarsi indietro e piangere delle possibili avventure che si è precluso.
E se parliamo del mare, bisogna anche fare riferimento ha un’altra importantissima immagine narrativa dell’Odissea, cioè la tempesta, che narrativamente ha la funzione di cambio di scena. Ma essa svolge immaginativamente altre due funzioni:
- ostacolo/impedimento: l’agitarsi violento del mare impedisce alle barche di seguire una rotta;
- distruzione/ricostruzione: l’esibizione cruenta della tempesta unita alla natura informe dell’acqua, capace di cancellare ogni cosa e contemporaneamente farle riemergere.
Letta alla luce di una dialettica esistenziale, alle tempesta sussegue sempre la quiete. Così la tempesta, capace di negare la progettualità dell’esistenza, ci mostra la fragilità dei nostri progetti, mentre la quiete mostra il venir meno della nostra determinazione nel perseguirli.
Come abbiamo detto Ulisse è l’eroe del tempo lineare, che anche se si vuole perdere, anche se nutre il fascino per la dimenticanza e per l’oscurità decide volontariamente di scegliere una via e percorrerla. Ulisse vuole tronare a casa e paga il prezzo dell’esistenza per essere se stesso: la sofferenza e il dolore di seguire la via della progettualità a discapito di tutte le altre vite possibili. I personaggi marini dell’Odissea come Eolo (che anche se è il re dei venti vive su un’isola), la ninfa Calipso, il popolo dei Feaci vivono beatamente il proprio tempo bloccato e non riescono a capire il perché gli uomini si affannino e fatichino per raggiungere una meta.
Calipso vuole bloccare il tempo di Ulisse, offrendogli il dono dell’immortalità, che Ulisse non accetta. Per una creatura immortale, infatti, non ha nessun senso raccontarsi, non esiste né passato né futuro, ma solo un noioso ed eterno presente. Così come Eolo vive il tempo bloccato per contrastare l’invecchiamento attraverso l’incesto; la stessa cosa si può dire del popolo dei Feaci, che vivono in una terra dove non esiste l’inverno, solo mezze stagioni e dove i frutti crescono tutto l’anno e i giorni si susseguono senza frattura. L’unica eccezione è Nausicaa, figlia del re Alcinoo, che scopre nudo Ulisse sulla spiaggia. È l’unico personaggio del popolo dei Feaci a rivendicare la propria individualità, rompere la ciclicità del tempo e riappropriarsi del proprio tempo lineare: vorrebbe sposare un uomo e avere una vita sua, indipendente.
Ad esclusione di Nausicaa, tutti i personaggi sopra citati, che respingono l’indole umana di affaticarsi e patire per realizzare i propri obiettivi, chiusi nella prigionia apatica delle pseudo-serenità derivante il tempo ciclico, rimangono travolti dalla vita intrisa di dolore di Ulisse, ritoccano la propria umanità dimenticata, riacquistano la capacità di emozionarsi per un racconto che è la vita vera, quella che loro negano e mascherano nell’abitudinarietà della vita senza progetti, la scelta più facile, la non-scelta.
Tanta è l’emozione nel ritrovare nel racconto di Ulisse se stesso come uomo che il re dei Feaci Alcinoo è disposto a fare sposare sua figlia Nausicaa a uno straniero. È così con Ulisse i Feaci si rendono conto che l’apatica successione dei giorni che si ripetono uno uguale all’altro è la loro vita, escono dalla caverna di Polifemo, rivendicano la propria individualità imparando a unificare i giorni nell’unità di un racconto con un inizio e la fine. In altri termini imparano l’arte della narrazione, si rendono consapevoli della loro innata capacità di essere animali narranti di cui si erano completamente dimenticati.
E quando moriranno una volta lasciato a Ulisse la nave per tornare ad Itaca, a seguito di una profezia che sotterrerà la loro città con un masso, si renderanno conto di tutto il tempo perduto nella ciclicità del vivere. Omero o chicchessia, ci sta dicendo questo: il fine dell’uomo è quello di raccontarsi, la celebrazione della propria singolare esistenza prima che la morte sopraggiunga e che ci fagociti per nutrire la vita stessa.
Per questo Ulisse non accetta l’immortalità da Calipso perché sapeva già come trovarla: imparare a fare della propria vita un racconto. E se il senso per eccellenza della cultura greca è l’udito perché attraverso l’orecchio si tramandavano storie immortali, facciamo tesoro dell’insegnamento che la storia di Ulisse, eroe senza tempo, ci ha lasciato, perché senza narrazione ciò che rimaniamo è “Nessuno”.