Valentina Battistoni e Truth Inside Females
Ho conosciuto Valentina Battistoni e Giulia Terenzi un pomeriggio d’estate, verso le sei di sera. Un’amica incontrata qualche settimana prima, al Pride, mi aveva parlato del loro progetto Nessunə Esclusə: un laboratorio di alcuni giorni, con adesione libera, finalizzato alla costruzione di un atto performativo.
Ideato da Valentina Battistoni, con il sostegno del collettivo Truth Inside Females, Nessunə Esclusə è stato ed è tutt’ora un connubio di arte, parola, danza e politica. Ho partecipato al laboratorio e alla performance: prima di raccontare l’esperienza in qualità di giornalista, ho voluto viverla sulla mia pelle, con il massimo del coinvolgimento emotivo. Il risultato è stato esplosivo.
Le biografie delle organizzatrici? Eccole!
Valentina Battistoni, ideatrice di Nessunə Esclusə, artista e performer indipendente, insegna Danza ed espressione corporea all’Università di Bologna. Laureata in neuroscienze, appassionata e affamata ricercatrice del corpo, lo scopre, lo studia e lo osserva da più punti di vista: neuroscientifico, fisico e poetico, politico. Specializzata in danzaterapia metodo Maria Fux a Milano e Buenos Aires, negli ultimi anni attraverso la performance art e la fotografia porta avanti la sua personale fusione tra arte e attivismo, concentrandosi soprattutto sulla questione di genere, femminismo e arte partecipata.
Giulia Terenzi invece fa parte del collettivo Truth Inside Females; di recente ospite di TedTalks, è scrittrice, mental coach e fondatrice di Art & Coaching.
All’organizzazione della performance e al laboratorio ha partecipato anche Giulia Tomasello di Truth Inside Females, designer e docente presso svariate università d’Europa. Giulia si avvale di strumenti come le biotecnologie e i batteri per mettere in discussione i tabù che circondano il corpo femminile: porta avanti una ricerca profonda sulla salute intima attraverso un linguaggio educativo, l’innovazione dei materiali e la tecnologia indossabile.
Il Laboratorio
Ci siamo incontratə al parco annesso alla biblioteca centrale della nostra città. Abbiamo iniziato verso le diciotto e provavamo fino a sera. Il gruppo era interessato e coinvolto. Abbiamo discusso: della nostra storia personale, dei pregiudizi, delle frasi e degli stereotipi che ci hanno più ferito, nel corso degli anni. Abbiamo disegnato autoritratti su cartelloni preparati ad hoc. Utilizzavamo foglie, colori, spago. E poi, spiegavamo al gruppo il senso della nostra opera. Al di là dell’esito puramente estetico, lo scopo di questa azione era quello di liberarsi da un peso, condividere energie con la comunità.
Dalla fase di disegno siamo passati poi alla fase di parola: dovevamo scegliere alcune frasi, da stampare per la maglietta da indossare durante la performance. Espressioni che ci hanno rivolto nel corso della vita – stereotipi e offese – ancora brucianti.
In ultima (ma non ultima) istanza, il corpo: abbiamo danzato e camminato, durante il laboratorio. Ci siamo preparatə a marciare con fierezza, a cadere con grazia, per sfilarci di dosso quelle brutte espressioni da dimenticare. O meglio: da superare.
La performance
Una marcia lenta e silenziosa attraverso la via principale del centro. Il gruppo, composto da venti persone circa, era un unico corpo compatto. Ognuno, davanti e sul retro, con le proprie frasi stampate in blu maiuscolo, sulla maglietta bianca.
Abbiamo iniziato, verso la fine della marcia, a sussurrare quelle parole. Arrivatə alla tappa finale, la piazza, abbiamo gridato – non con la rabbia di chi vuole vendicare un danno – ma con la chiarezza, piuttosto, di chi si è ormai rialzato, e vuole essere.
Alla fine ci siamo messi a correre, a sciabordare tutti insieme dentro la piazza, concitati, affannati. Siamo crollati a terra. Ci siamo rialzati, uno a uno: mentre ci sollevavamo da terra, abbiamo sfilato via la maglia. Con grazia, con precisione, dignità, lentezza.
Siamo rimasti con la nostra pelle. Con gli abiti o i body painting scelti da noi. Ci siamo liberati dalla corazza, dall’automa di violenza entro cui eravamo stati ingabbiati.
Giulia Terenzi, nel mentre, leggeva al microfono il nostro manifesto, scritto in collettivo durante il laboratorio.
Dopo la performance: l’intervista
Ragazze, dopo la performance, come vi sentite?
Valentina Battistoni: Credo che con questa performance abbiamo smosso parecchie energie a livello interiore ma anche collettivo, politico. Lo definirei un grosso lavoro. Non solo professionale, ma soprattutto interno, emotivo.
Giulia Terenzi: Subito dopo la performance ha iniziato a piovere a dirotto. Abbiamo portato sotto il diluvio la cassa dell’amplificazione e da quel momento non sono più riuscita a parlare: non avevo più forze! Le parole che ho messo in campo sono state importanti, tanto che a sera ho sentito il bisogno di tornare nel silenzio, fino alla tarda mattina. L’azione è stata un’esplosione di emozioni contrastanti che mi hanno fatto pensare: “Sono io. Nella via giusta”. Un atto curativo per me e per gli altri, senza dubbio. Tanto che ho pensato anche: “Quanto potente può essere una collaborazione portata avanti con altri esseri umani che hanno il stesso tuo obbiettivo?”
Giulia Tomasello: Per me è stato difficile, dopo anni all’estero, ritrovare quelle parole italiane che avevo rimosso. Durante i laboratori non stavo benissimo, a Berlino soffrivo e ne ho risentito anche qui in Italia. Durante la performance mi sono sentita molto esposta: sono abituata a stare davanti a un’audience con il mio lavoro, ma in questo caso è stato molto diverso.
Quali sono i testi, Valentina, che ti hanno ispirato di più per l’ideazione della performance?
L’alleanza dei corpi di Judith Butler è stato l’ultimo testo che ho letto, ma negli anni ho letto molto a proposito di spiritualità femminile. Donne che corono coi lupi di Clarissa Pinkola Estésè stato il testo che mi ha permesso di ricontattare quella parte “selvaggia” di me che poi ha avuto il coraggio di intraprendere questo percorso. Ma anche Corpi Impuri di Marinella Manicardi, che tratta il tabù delle mestruazioni. E poi il fumetto Bastava Chiedere di Emma Clit, francese, che parla degli stereotipi di genere e della relazione quotidiana che si instaura all’interno della coppia.
Vi potete collocare in una corrente femminista?
Giulia Tere: In questo momento della mia vita non mi sento di inserirmi in nessuna corrente, ancora non mi sono informata abbastanza in merito, quindi per ora mi piace essere così: aperta, ricettiva, senza etichette e senza definizioni.
Valentina Battistoni: Per molto tempo la connessione della parola “femminista” con la percezione di “femminista=donne che odiano gli uomini” mi ha fatto stare lontana dal definirmi tale. Il libro che mi ha fatto fare il salto di qualità è stato Dovremmo essere tutti femministi, di Chimamanda-Adichie, ma anche i Podcast di Irene Facheris. Per citare una me stessa bambina, concluderei con questa frase: “Fammi delle domande sui contenuti, poi mettimi tu nel contenitore che preferisci”.
Giulia Tomasello: Io mi occupo non di femminismo in sé, ma di pratiche che portano il suo segno, il suo sottotesto. Le mie ricerche partono dal filone californiano degli anni ’70. In quel periodo alcune donne avevano cominciato a destigmatizzare alcuni termini inerenti al corpo della donna tramite le metodologie del self awareness. Da quel movimento è nato il libro Our Bodies Our Selves, una raccolta che tuttora cambia, e che racconta di come la donna affronti mestruazioni, masturbazione, menopausa riportando pratiche e esperienze delle persone stesse. Il libro è stato un grande punto di riferimento, ai tempi, anche se ora ne riconosco i limiti (il focus sulle donne bianche, ad esempio). Ora sto leggendo tanti libri di attivisti con influenza molto americana. Il mio rapporto con il femminismo? Non appartengo a nessun gruppo specifico, ma penso che, in quanto donna, sono già, in un certo senso, femminista.
Grazie ragazze. Spero che il progetto possa viaggiare lontano e toccare molte città d’Italia.