Risale al luglio del 2013, e più precisamente al colpo di stato che portò alla destituzione dell’allora Presidente egiziano Mohammed Morsi, l’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Egitto che diede inizio a una fase di allontanamento e scontro tra due dei più influenti paesi della regione. Ankara si era immediatamente apposta al colpo di mano orchestrato dal generale Abdel Fattah al-Sisi, all’epoca ministro della difesa, che con il supporto dell’esercito aveva rovesciato il primo governo democraticamente eletto nella storia dell’Egitto e si era instaurato al potere ricevendo il supporto di gran parte del mondo occidentale e delle monarchie del Golfo.
Il Cairo ha condannato fin da subito i tentativi turchi di interferire negli affari interni egiziani, ma con ogni evidenza al centro della controversia tra i due paesi si ha l’appartenenza del deposto presidente Morsi (deceduto nel 2019 nelle carceri egiziane) alla Fratellanza musulmana, movimento che incarna posizioni simili a quelle dell’AKP del presidente turco Erdogan e che è stato, a partire dal 2013, etichettato dalle autorità egiziane come organizzazione terroristica e fuorilegge.
Il movimento dei Fratelli musulmani, fondato nel 1928 proprio in Egitto in seguito al collasso dell’Impero Ottomano, è un’organizzazione che sostiene un approccio politico all’Islam che è stata avversata e repressa per gran parte della propria storia. La contrapposizione tra Egitto e Turchia si inserisce però all’interno del quadro regionale emerso in seguito alle sollevazioni della Primavera araba che hanno animato un decennio fa la gran parte dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente portando, in diversi casi, alla caduta di regimi decennali e al rafforzamento delle fazioni portatrici di una visione politica dell’Islam.
Mentre per le monarchie del Golfo e per lo stesso Egitto l’ascesa dei movimenti vicini alla Fratellanza Musulmana veniva percepita come una minaccia ai propri interessi e al mantenimento di una posizione di forza negli equilibri regionali, per Ankara il quadro emerso dalle sollevazioni del 2011 rappresentava l’opportunità di ampliare la propria sfera di influenza e di rilanciare il proprio ruolo di potenza regionale e, in prospettiva, globale. Così, se da un lato l’Arabia Saudita si è impegnata in prima persona per tamponare gli effetti delle proteste intervenendo in prima persona in Bahrein e elargendo cospicui finanziamento alle monarchie giordane e marocchine, da parte turca l’ultimo decennio è stato caratterizzato dal tentativo di ritagliarsi una posizione di controllo in scenari che vanno da quello libico a quello siriano e, più recentemente, a quello afghano.
Proprio il comune sostegno alla Fratellanza ha creato le basi per la nascita di un asse di intesa tra Turchia e Qatar, che ha avuto, negli ultimi anni, la più grande espressione nel sostegno congiunto nei confronti di Al Serraj e del GNA in Libia. La stessa Doha, a causa del sostegno a gruppi come la Fratellanza e Hamas e per via della vicinanza all’Iran, è stata per anni vittima di un embargo e di un blocco aereo da parte delle monarchie del Golfo (con Ryad in testa) e dello stesso Egitto.
I rapporti tra Qatar e Arabia Saudita sono più distesi dal gennaio di quest’anno e dalla firma della “Dichiarazione di Al Ula” che ha riaffermato lo spirito di collaborazione tra i paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il riavvicinamento, avvenuto mentre a Washington ci si preparava per l’avvicendamento tra Donald Trump e Joe Biden, ha inaugurato una fase di ridefinizione dei sistemi di alleanze nella regione.
Lo scorso 3 maggio una delegazione turca si è recata al Cairo per tenere colloqui con le controparti egiziane, segnando la prima visita ufficiale dal 2013. La progressiva normalizzazione delle relazioni tra i due paesi va letta anche alla luce dei cambiamenti avvenuti nel dossier libico, che negli anni era stato uno dei maggiori punti di contrasto tra i due paesi. La svolta nei rapporti tra Egitto e Turchia risponde, quindi, sia a ragioni di sicurezza che alle nuove esigenze commerciali emerse nello scenario pandemico.
Nelle scorse settimane, a margine della seconda tornata di colloqui che ha avuto luogo ad Ankara, il premier egiziano Mostafa Madbouly ha affermato che già quest’anno i due paesi potrebbero riavviare in via ufficiale le reciproche relazioni diplomatiche. Erdogan ha più volte dichiarato di non essere disposto ad incontrare di persone il leader egiziano Al Sisi, ma i segnali di un effettivo disgelo sono concreti e le elezioni che si dovrebbero tenere in Libia nei prossimi mesi potrebbero rappresentare un passaggio decisivo. La posizione del premier Ddeibah, tuttavia, non è solidissima e la situazione va comunque monitorata con attenzione.
L’arrivo di Biden alla Casa Bianca e la nuova postura statunitense nei confronti dell’alleato saudita hanno inaugurato una fase di riallineamento in Medio Oriente. I primi segnali si erano avuti con i contatti diretti tra Erdogan e il principe emiratino Mohamned bin Zayed e con le controparti saudite. Se l’eredità lasciata da Trump nella regione si basava sugli Accordi di Abramo e sulla rinnovata ostilità nei confronti di Teheran, il nuovo corso democratico sembra aver creato le condizioni per un ridimensionamento delle contrapposizioni regionali e per una maggiore fluidità nelle relazioni diplomatiche.