Chi non ha pensato, almeno una volta “Ah, se potessi tornare indietro”? Voler cambiare il passato, chiedersi come sarebbe potuto andare diversamente un evento ormai immutabile? È un istinto antico come l’umanità. La risposta è l’ucronia, un genere narrativo spesso chiamato anche “what if…?“. Almeno con la fantasia, ci permette di esplorare scenari che non sono mai accaduti. Sovvertire un evento significativo a livello globale come in The man in the high castle, che immagina un mondo in cui a vincere la Seconda Guerra Mondiale sono state le forze dell’Asse, anziché quelle Alleate. Oppure modificare una scelta personale, che però attraverso l’effetto farfalla dà luogo a conseguenze su larga scala.
È un genere così popolare da dare persino il nome a una serie animata Disney, che esplora le infinite possibilità di questi momenti sliding doors nell’universo dei supereroi Marvel. Ma cosa succede, nella nostra mente, quando produciamo o consumiamo media che stravolgono la realtà storica?
In qualunque period piece, per cinema o tv, c’è sempre stato qualche elemento anacronistico. Costumi, musiche, azioni che i protagonisti difficilmente avrebbero potuto compiere in quel tempo e in quel contesto. Modi di pensare che sarebbero andati contro ogni regola del loro mondo. La colonna sonora rock de Il destino di un cavaliere non è certo appropriata al Medioevo. Le avventure en travesti di Gwyneth Paltrow in Shakespeare in love non hanno nulla di storicamente accurato. Memorie di una geisha fa un allegro frullato di stereotipi errati sulla cultura giapponese. Per non parlare dei film animati con cui noi millennial siamo cresciuti, pellicole come Pocahontas e Anastasia, che avevano ben poco a che fare con quanto realmente accaduto alle loro protagoniste.
Abbiamo sempre giustificato una certa dose di imprecisioni e invenzioni sfacciate, come prezzo da pagare per una narrazione godibile. Negli ultimi anni, però, è sorto un dibattito sulla verità storica – anche in opere che non hanno alcuna pretesa di verosimiglianza – e sul politicamente corretto che vorrebbe minacciarla. Un esempio perfetto è il polverone sollevato dal musical Hamilton, che fa interpretare i Padri Fondatori degli USA ad attori e rapper neri e latinos più a causa della visione artistica del suo creatore Lin-Manuel Miranda che non per una presunta volontà di inventare una storia parallela. E il motivo di tante polemiche è che il genere “what if…?” si è trasformato. Il modo in cui lo usiamo è diventato più diretto, deliberato. Più apertamente politico.
C’è sempre un bisogno attuale, un problema nel nostro presente che proiettiamo in storie ambientate anni o secoli fa. Lo facciamo per curiosità stilistica, per un senso di rivalsa. O magari solo perché raccontare il passato è più semplice che cogliere la complessità del presente.
In Lovecraft Country e Watchmen, entrambe targate HBO, si fa riferimento alla segregazione razziale. L’epoca Jim Crow e il massacro di Tulsa diventano punti di svolta per raccontare Stati Uniti alternativi, dove i protagonisti afroamericani rispondono alle sopraffazioni dei bianchi tra elementi di horror fantastico e superpoteri. La discriminazione è tema di fondo anche per Bridgerton (qui il nostro articolo sulla serie Netflix), le cui romantiche vicende hanno luogo in un settecento inglese immaginario, in cui non si fa distinzione tra bianchi e neri. La serie Hollywood di Ryan Murphy immagina come sarebbe potuta essere la golden age del cinema se celebrità come Rock Hudson, segretamente omosessuale nella realtà, fossero uscite allo scoperto sdoganando i diritti della comunità LGBT già un secolo fa.
Proiettiamo ciò che sta a cuore a noi, persone del 21esimo secolo, su commedie e drammi, colossal e serie in costume che si svolgono in epoche ormai superate. Un po’ perché certe esperienze umane universali sono davvero possibili in ogni tempo, ed è solo un caso se le cose sono andate diversamente. Un po’ perché giocare a immaginare ciò che avrebbe potuto essere è divertente, avvincente, un esercizio mentale tutt’altro che fine a se stesso. Riscriviamo il passato per cambiare il presente.
Creare e fruire storie “what if” che prendono dichiaratamente di mira le ingiustizie sociali e le disuguaglianze, attraverso la lente chiarificatrice della licenza poetica e della semplificazione drammaturgica, ci permette di vedere più chiaramente quegli stessi problemi. E anche il modo in cui da moltissimo tempo, a volte senza che ce ne rendiamo conto, rendono la nostra una società ostile e intollerante.
Le ucronie “militanti” di questi anni sono opere di denuncia. Ci dicono: siate consapevoli di questi torti, perché non appartengono solo al passato. Ma offrono anche una speranza: tutto questo avrebbe potuto essere cambiato in un’epoca più arretrata, e a maggior ragione può cambiare oggi, con gli strumenti della modernità.
Non è revisionismo storico. Nessuno cerca davvero di convincerci che i libri di storia mentono e che la verità sta in un film o una serie tv. Ciò che si vuole rivisitare, davvero riscrivere, è il presente. Ma questo tipo di storie, al di là del dibattito che suscitano, avranno davvero il potere di scuotere le coscienze e provocare un’azione positiva? O resteranno confinate a un ruolo di intrattenimento e di evasione dalla realtà?