Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo del ruolo assegnato alla pallavolista Paola Egonu come portabandiera durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020.
I Giochi olimpici, fortemente attesi in questa edizione, sono iniziati venerdì 23 luglio alle 13.00 (ora italiana) e hanno visto Paola Egonu, insieme ad altri atleti e atlete, portare la bandiera con i cinque cerchi all’interno dello stadio in cui si svolgeranno le competizioni. La pallavolista è stata suggerita al CIO (Comitato Olimpico Internazionale) dal CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e ha retto lo stendardo che rappresenta i Giochi olimpici, non il Tricolore che è stato portato dalla tiratrice Jessica Rossi e dal ciclista Elia Viviani.
Eppure questa notizia è stata accolta con diffidenza e sdegno da parte dell’opinione pubblica italiana, che non ritiene Egonu adatta a rappresentare il Paese a cui appartiene e per cui gareggia. Come hanno riportato i fatti i giornali?
Il Corriere della Sera dipinge la pallavolista come un simbolo delle Olimpiadi e riporta nel titolo le sue parole e i suoi intenti: «Sfilerò per ogni atleta del mondo». Secondo la testata Egonu è «il volto di un’Italia finalmente moderna». Perché? L’atleta è sì italiana e anche nera e queer.
Sono proprio queste sue molteplici identità ad aver da un lato suscitato entusiasmo per la decisione del CIO, che ha scelto una sportiva brillante e facente parte di più comunità marginalizzate, dando loro visibilità. D’altro lato, però, sono sempre tali caratteristiche ad aver generato scetticismo e ostilità verso il ruolo di cui è stata investita, secondo la semplicistica credenza per cui una donna nera e queer non possa rappresentare l’Italia.
Il Corriere getta inoltre un’ombra di negatività e di semplicismo sul coinvolgimento di Egonu, che si basa sui suoi straordinari successi nel campo della pallavolo. Si legge infatti «Risarcimento o premio di consolazione per la bandiera tricolore sfumata a fil di sirena […], a questo punto, poco importa», facendo chiaramente riferimento al Tricolore sfilato nelle mani di Jessica Rossi e non nelle sue, come si vociferava un anno fa. Subito dopo la testata prosegue riducendo fortemente la portata del ruolo e della carriera di Egonu che l’ha portata a stringere la bandiera olimpica: «Tocca rivedere il look, capelli e unghie, il sorriso è già una delle specialità della casa».
In tutta questa narrazione, inoltre, l’atleta viene nominata unicamente attraverso il nome (Paola). Solo nella conclusione dell’articolo le si riconosce «il ruolo di leader del movimento pallavolistico internazionale, ma anche di campionessa rappresentativa di una generazione intera, che si riconosce nella sua energia, nella sua libertà di pensiero, nelle sue scelte mai banali».
La scelta di Egonu come portabandiera ha scatenato una serie di manifestazioni di dissenso, per lo più di base razzista, che accusano il COI di essersi arreso al conformismo (la tanto famigerata quanto inesistente “dittatura del pensiero unico”). Il Fatto Quotidiano risponde direttamente a queste affermazioni.
La testata elenca i risultati sportivi raggiunti da Egonu, definita la «giocatrice più forte al mondo». Tra i meriti quindi bisogna ricordare almeno «il record di punti in una sola partita (47), una schiacciata e una battuta che arrivano a 100 km/h, un mondiale per club, due Champions League, un campionato, 7 coppe e una medaglia d’argento ai mondiali».
Viene poi fatta una panoramica della sua carriera, breve perché giovane ma molto intensa. Inizia a giocare a pallavolo a dodici anni in Veneto, regione in cui è nata da una famiglia di origini nigeriane, e in pochi anni approda già alle nazionali. Viene convocata alle Olimpiadi di Rio 2016 prima ancora della maggior età. Da qui la sua carriera come atleta prende il volo. Il Fatto Quotidiano passa in rassegna tutti i trofei e le medaglie vinte negli ultimi anni.
Le altre testate italiane dedicano alla vicenda uno spazio notevolmente più contenuto. È il caso del Sole 24 Ore e di Sky TG24, che riportano in breve come la pallavolista sia stata avvisata del suo ruolo da Giovanni Malagò, presidente del CONI. Vengono inoltre citate le parole di Egonu, che sono significative anche alla luce della reazione suscitata dalla notizia: «mi ritrovo a rappresentare gli atleti di tutto il mondo ed è una grossa responsabilità: attraverso me esprimerò e sfilerò per ogni atleta di questo pianeta».
La Stampa, nel suo breve resoconto della notizia, inserisce anche la reazione del presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che dipinge Egonu come un «esempio di perfetta integrazione». Questa affermazione viene ripresa, sempre sulla testata torinese, da Michela Murgia in un articolo di commento sulla vicenda. Cosa significa – si chiede l’autrice – essere un modello di integrazione? «Egonu è nata in Veneto, è cresciuta a Cittadella, ha fatto le scuole qui ed è madrelingua italiana: a che cosa esattamente dovrebbe integrarsi? La frase di Zaia resta problematica anche se applicata a coloro che arrivano qui da un altro luogo. […] Dire che Egonu è un modello di integrazione solo perché è una campionessa è fuorviante, se non discriminatorio, perché implica che la mancata integrazione di migliaia di persone nate in Italia (o arrivate qui da anni) sia in fondo colpa loro, dei loro errori, della loro mediocrità e dell’incapacità di somigliarci abbastanza da farci smettere di temere la loro differenza».
Il modo in cui la pallavolista è stata ritratta, inoltre, è legato a quello che Murgia definisce «il più grande degli equivoci discriminatori: quello che confonde l’eccezione con l’eccellenza». Eppure «un sistema genera eccellenza non solo quando riconosce il talento dei singoli, ma quando offre opportunità a chiunque voglia svilupparlo […]. L’eccezione è l’opposto: è la condizione di chi ce la fa non grazie al, ma nonostante il sistema». Associare i diritti a un’eccellenza comporta l’idea che essi vadano meritati.
In conclusione, la nomina di Egonu come portabandiera dei cerchi olimpici è stata tanto discussa perché tocca un nervo scoperto: la difficile consapevolezza della convivenza di ciò che un individuo è e ciò che rappresenta. Indubbiamente i meriti di Paola Egonu in campo sportivo sono molteplici e notevoli. La sua posizione di portabandiera, però, non può fermarsi solo ai traguardi nella pallavolo, perché anche se essi sono la ragione per cui ha retto i cerchi olimpici, chi l’ha vista nello stadio di Tokyo le ha assegnato un ulteriore significato. Lo ha fatto chi non la ritiene abbastanza corrispondente allo stereotipo di persona italiana per rappresentare il nostro Paese, ma anche chi ha visto in lei il segno di un’Italia che dà più spazio alle comunità marginalizzate. Non dimentichiamo inoltre i giovani di minoranza etnica, che – come commentano Nadeesha D. Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Catena Mancuso (conduttrici del podcast Sulla razza) – «grazie a Egonu si vedranno rappresentati dallo sport italiano nel mondo».
Le cerimonie sportive sono sempre dominate dai simboli ed essi vengono individuati e portati alla pubblica attenzione anche quando non ci sono (il commento di Rai 2 durante la cerimonia di apertura di Tokyo 2020 lo dimostra). È quindi semplicistico pensare che il ruolo di Egonu non abbia conseguenze sulla visibilità delle categorie marginalizzate di cui fa parte, ma è anche riduttivo giungere alla conclusione che siano solo queste e non anche (e soprattutto) i suoi successi sportivi ad averla portata a reggere la bandiera con i cerchi olimpici.