«I cartoni con le principesse sono diseducativi per le bambine» dichiarano celebrità come Keira Knightley. «Il film che ha rovinato una generazione di donne» titolano le riviste, come The Vision in questo articolo fortemente ritwittato. E poi ci siamo noi, semi-serie, che sui social attribuiamo le nostre aspettative impossibili sugli uomini, la vita, l’universo ai personaggi di finzione.
Uno spettro si aggira per l’internet che ama parlare di spettacolo: l’idea che una donna sullo schermo diventi automaticamente un modello per le suggestionabili menti delle spettatrici. E che perciò debba rientrare in rigidi canoni di accettabilità.
Abbiamo messo sul piedistallo molte eroine del grande e piccolo schermo, per poi criticarle quando non aderivano più a certe norme aspirazionali. Protagoniste anche amatissime possono in un attimo trasformarsi in cattivi esempi di femminilità. Ma poi, cos’è questa femminilità che dovrebbero insegnarci dei personaggi di fantasia? Ed esiste davvero una “femminilità tossica” che si può assorbire solo guardando la tv?
«Creano aspettative irrealistiche». È questa l’accusa che spesso viene rivolta ai prodotti d’intrattenimento destinati a un pubblico femminile. La Carrie Bradshaw di Sex & The City, per esempio, viene accusata di averci illuso per anni che sia possibile fare il lavoro dei propri sogni e al tempo stesso vivere nel lusso. Lorelai Gilmore di Una mamma per amica è rea di far apparire normale l’utopia di essere sia una giovane madre che un’imprenditrice.
Innumerevoli commedie teen vengono incolpate di rappresentare amicizie tra ragazze solidissime, mitologiche, che resistono a tutto più e meglio delle relazioni sentimentali, come in The Bold Type. Amelie Poulain è la famigerata ambasciatrice della convinzione che essere eccentriche sognatrici possa renderci interessanti e desiderabili. E alla sua figura di manic pixie dream girl bisogna contrapporre la versione maschile, gli eroi romantici che guastano l’immagine degli uomini reali con la loro impossibile perfezione.
Certo, plasmare noi stesse sui nostri personaggi preferiti sarebbe una missione suicida. Perché prenderli a modello esporrebbe a cocenti delusioni, o a una vita di sforzi disumani nel tentativo di trasformarsi in una donna che non è davvero una donna, ma un concetto, una silouette idealizzata e inesistente. Oltre che con l’aspetto fisico di attrici bellissime, dovremmo metterci a confronto anche con le vite, le carriere, le personalità irresistibili delle eroine che incarnano? Non ne usciremmo bene. Ma poi, lo facciamo veramente?
Nella realtà, le donne non sono così facili da impressionare. E perché dovrebbero esserlo? Non penseremmo mai che i film di 007, le serie sui supereroi, la saga di Fast & Furious possano “rovinare i ragazzi” con la loro rappresentazione irrealistica degli uomini protagonisti, del mondo in cui agiscono, o addirittura delle leggi della fisica. E allora perché alle ragazze e alle donne non viene riconosciuta la stessa capacità critica?
Non è la tv che crea modelli di femminilità distorta. Quelli ci sono già, nel nostro contesto sociale e culturale. Ma nell’oceano di prodotti audiovisivi in cui sguazziamo, è facile sovra-analizzare i contenuti e attribuire significati profondi a prodotti che vorrebbero essere puro intrattenimento, non argute critiche sociali. Non che questo tipo di storie, leggere e disimpegnate, non possano danneggiare l’immaginario collettivo. Spesso lo fanno. Per esempio, Anastasia di 50 Sfumature di Grigio o Daphne Bridgerton hanno molti più punti oscuri delle eroine tuttofare che tanto critichiamo in altre serie o film. Passano sotto traccia, ricevono sì biasimo, ma molto meno di una Amelie Poulain o di una Carrie Bradshaw. Non sarà che mettiamo in discussione i modelli femminili solo quando escono dalla fantasia “rosa” per avventurarsi in storie “da maschi”?
Forse accusiamo di essere irrealistiche eroine che sono sì di fantasia, ma non è detto che siano anche irraggiungibili. Molti dei nostri programmi preferiti sono tali perché aspirazionali. Vediamo la protagonista superare di molto gli orizzonti limitati della famiglia, della cultura, dell’ambiente magari opprimente in cui viviamo noi. E capiamo che altrove nel mondo, o in un futuro non lontano, potremmo essere come loro. Non “ragazze rovinate dalla tv” che inseguono chimere, ma donne che hanno provato a plasmare la realtà prendendo spunto dalla fiction. Come Whoopi Goldberg, che racconta di aver trovato la sua vocazione vedendo Nichelle Nichols, una donna nera nei panni del tenente Uhura in Star Trek. O come molte donne musulmane che, nelle aree più conservatrici del Medio Oriente e del Nord Africa, tra le altre cose, traggono ispirazione dalle soap opera turche per portare avanti la lotta per l’emancipazione.
Oppure, semplicemente, guardiamo e passiamo oltre, perché, salvo eccezioni, non siamo ingenue né ignoranti, e sappiamo distinguere quello che vediamo sullo schermo dalla realtà. Prima che come manifesti da seguire o da rifiutare, sappiamo trattare film e serie tv per quello che sono. Espressioni artistiche, più o meno riuscite, della visione personale di un ristretto gruppo di persone. E altrettanto personale sarà l’effetto che susciteranno in ciascuna delle spettatrici.
Se c’è qualcosa che non va in una storia, qualcosa che percepiamo come nocivo per la società – tutta, non solo le fragili, impressionabili portatrici di cromosoma XX – allora dovremmo farci una domanda. Come possiamo cambiare la mentalità che ha prodotto quella storia? E se invece a finire nel mirino della critica fosse una protagonista complessa e affascinante, le cui imprese sono considerate impossibili solo perché donna, la questione che dovremmo porci diventa un’altra: a chi dà fastidio che una donna simile possa essere d’ispirazione?