Prima di entrare negli anni Dieci del Duemila la serie Mad Men era già oggetto di culto. Molti millennial la ricordano come un caposaldo della propria tarda adolescenza, chi l’ha recuperata dopo come un blocco essenziale della contemporanea storia dei media. Ma è realmente una serie che terrà nel tempo, senza arrendersi alle evidenze future della storia? Sarà in grado di segnare un’epoca, come è stato per Breaking Bad?
Difficile è dire quanto questa serie tenga il discorso corale alla maniera di Balzac o di Tolstoj, fatto sta che ci riesce egregiamente per 7 stagioni; portare avanti un discorso collettivo è l’ambizione di molte serie tv le quali spesso falliscono proprio perché incapaci di verticalizzare, mettendo troppa carne al fuoco. La complessità della materia, cioè della sceneggiatura, cioè dei personaggi stessi che ne compongono le vicissitudini, viene fuori col tempo, perché l’incipit è un susseguirsi di luoghi comuni sul ruggente mondo della pubblicità del tempo, con spavalderie e machismi che passano celeri dal canonico al ridicolo. Ma poi gli angoli si smussano e la complessità salta fuori o, quand’anche rimanesse la sceneggiatura sempre un po’ di superficie, o meglio di puro spettacolo, dentro vi fa trovare ogni sfumatura del genere umano.
Per questo la lunga serie, da molti giudicata un po’ lenta, si inserisce tra quelle opere del romanzo che alternano i diversi momenti che un essere umano esperisce dentro il proprio percorso esistenziale: la noia, l’esaltazione, l’abbandono, la sconfitta, il trionfo della vita, l’agio, la sfrontatezza, l’indigenza, poi anche la morte. Soltanto verso il finale Mad Men dispiega un epilogo sospeso ma drammatico che ci ricorda che noi stessi, al pari di chi ci sta al fianco, non abbiamo a disposizione un tempo infinito e pertanto necessitiamo di scelte mirate, che stiano dentro e non fuori dell’uomo.
Vi è poi da chiedersi perché una serie Tv ambientata negli anni Sessanta abbia avuto un tale successo nel nostro tempo, nel terzo millennio. È banale ricordare che una ricostruzione valida e di qualità funziona sempre, a prescindere dall’orizzontalità e dalla verticalità dell’ambientazione e del suo posizionamento. Della nostra epoca testimonia poi il vuoto che scaturisce dalla liquidità, anche se non lo tratteggia come un vuoto irreparabile. È questa l’impressione che ci si fa con lo sceneggiato.
L’altro aspetto è l’affezione per il vintage. Anche Mad Men è un prodotto del duemila che cerca lo stile e non trovandolo nella sua epoca è costretto a guardare indietro, ammiccando al “retrosexual” che ha il suo appiglio massimo all’inizio degli anni Sessanta, anche se poi si perde dopo il ’68. È una serie raffinatamente volgare e maschilista come lo è la società del tempo, almeno se vista con i nostri occhi, ma accentua questi caratteri fino a farli divenire barzelletta, esaltandoli ed esagerandoli. E tuttavia risulta credibile perché non inventa niente.
Il suo personaggio più stereotipato e meno interessante è paradossalmente il protagonista, anche perché costruito su stereotipi di cui il cinema classico e le serie tv hanno fatto incetta per decenni: una forte avvenenza, una ingente disponibilità economica, una dirompente carica sessuale, un’acuta intelligenza, una cultura pop di medio livello, un passato oscuro che dà tormenti. Don Draper, che ha in realtà un’altra identità, diventa interessante solo quando fallisce, cioè si fa uomo. Solo nel conoscere il fallimento, nelle battute conclusive di una lunga serie, il suo essere uomo si fa completo e alla coscienza del fallimento stesso affianca la maturità che è tipica di una certa consapevolezza non senile, ma quantomeno di metà percorso. Non a caso i rapporti più interessanti che ha Don con le donne non sono quelli di tipo sessuale: la moglie del soldato di cui ha preso l’identità, sua nipote e poi soprattutto Sally, di cui ci rimane impresso nella memoria il ricordo indelebile di un ballo con My way di Sinatra in sottofondo e della telefonata dell’ultima puntata.
Anche perché questa figurazione del maschio alpha si fonda su una scommessa mai del tutto riuscita, ovvero una sorta di proiezione nostra, intellettuale. «E Mad Men è ancora meglio della nostalgia» si legge sul Sole 24 Ore, «È quello da cui veniamo, ma nella sua versione nera, psichicamente scossa, viziosa. Non solo: ha un valore mitologico perché quel tempo lì, quando tutto era consentito, si fumava, beveva, scopava a piacimento, non è mai esistito. È una proiezione fantastica della nostra frustrazione».
In quanto a stupidità e mediocrità, però, il parterre è ben servito. A ben vedere, l’unico uomo di una statura culturale e intellettuale che non faccia accapponare la pelle è Bertrand Cooper, che è anche il più anziano dei soci e appartiene a un’altra generazione. È l’incarnazione del liberalismo, ma ne supera la vacuità di fondo. Gli altri sono dei soldati che giocano alla guerra del denaro, esecutivi più che intuitivi, uomini d’azione più che di pensiero. Anche quando riescono a tirare fuori idee di una certa originalità.
Sterling, amico di Draper, è il più statunitense dei personaggi. Se è vero che Cooper è un avatar del capitalismo, tanto da consigliare a Don la lettura di Ayn Rand, Sterling rappresenta invece l’America in tutte le sue contraddizioni, il suo infantilismo inconsapevole. Ma Cooper è anche colui che appare a Draper, una volta che già non c’è più, in due sequenze oniriche che contraddicono il suo repubblicano personaggio e lo rendono un mentore senile e più umano. Nella prima canta «Best thing in life are free»; nella seconda, in automobile, cita Kerouac: «dove vai America, in macchina, nella tua notte scintillante?».
Comunque, non mancano i personaggi giovanili degni di interesse. Non a caso Campbell, un arrivista che fa la parte del micio più che del leone e pare raccogliere le disgrazia di uno stesso sistema che contribuisce a creare, è uno degli assi portanti nella narrazione.
Mad Men come opera storica
Se il tentativo di Mad Men fosse quello di rappresentare l’America attraverso sette anni della sua storia, la serie sarebbe parzialmente fallimentare. Poiché però non è quello lo scopo, l’accompagnamento storico di fondo che si crea in parallelo con la vicissitudini dei personaggi ha un suo specifico senso. La serie, dice bene questo articolo, è anche una rievocazione degli anni Sessanta in chiave Repubblicana; i personaggi dello show sono sfacciatamente Repubblicani, quasi tutti. È anche una serie che funziona a meraviglia nell’ammiccare alla cultura Pop del tempo. Non a caso l’attore più citato per indicare un canone di bellezza maschile è Tyrone Power, che era scomparso nel 1958 ma che per quella generazione rappresentava il prototipo dell’avvenenza maschile. Attori, qualche scrittore, cinema non troppo, musica anche, i pittori quando serve.
In ogni caso, le tappe rievocate sono molteplici. L’assassinio di Kennedy visto dall’agenzia dà una ricostruzione lampante dell’angoscia del tempo. Quello di Martin Luther King – e i conseguenti disordini – è rievocato magistralmente per atmosfera. Vi sono poi significati storici che si legano alle vicende dei personaggi. Cooper assiste all’allunaggio del 1969 e il suo decesso segna simbolicamente la fine di un’epoca, quella dei gloriosi ’60. «Quando un anziano parla di Napoleone a sant’Elena, sa che sta per morire» dice Roger Sterling a proposito di un’ultima discussione avuta con lui.
L’agenzia viene assorbita, una generazione passa per sempre. Ora trionferà un uomo nuovo, a parole più sensibile e meno individualista, ma nella realtà egualmente ipocrita. Tanto è vero che gli anni Ottanta saranno dietro l’angolo. Anche se ambientato negli anni Sessanta, infatti, Mad Men sembra un grande costrutto dell’età reaganiana, che anticipa il suo tempo di vent’anni.