Nel 2003 Andrea Camilleri pubblica Il giro di boa. Siamo a due anni dai fatti del G8 di Genova, quindi è passato un lasso di tempo abbastanza lungo per poterli mettere in prospettiva e capirli a pieno, ma non tale da non sentirli più vicini. Questo romanzo, l’ennesimo giallo ambientato a Vigata, si apre proprio richiamando gli episodi di violenza tra le strade liguri che il protagonista, il celebre commissario Montalbano, osserva al telegiornale. Perché la realtà entra nel mondo finzionale creato da Camilleri?

La copertina de Il giro di boa

L’autore sostiene che «Il giro di boa venne scritto sotto l’impulso di due avvenimenti distanti tra loro, ma che mi colpirono e m’indignarono in modo particolare. Il primo fu il G8 di Genova e il comportamento non certo esemplare delle Forze dell’ordine in quelle terribili giornate. Il secondo avvenimento fu la scoperta che alcuni trafficanti di carne umana avevano sbarcato sulle nostre coste dei bambini per venderli». I romanzi di Camilleri solitamente sono privi di riferimenti chiari alla contemporaneità, ma questo vede l’entrata in scena delle vicende che hanno sconvolto i primi anni 2000 e che mettono in subbuglio anche i personaggi del giallo.

Il giro di boa si apre con il commissario Montalbano che è tormentato dalle proprie riflessioni e non riesce a dormire. E non per via di un nuovo omicidio, delle liti con i colleghi o delle deliziose pietanze di cui è ghiotto il personaggio e che danno un tono più leggero ai romanzi, ma per gli episodi di violenza avvenuti durante il G8 di Genova che vengono trasmessi in televisione.

Nuttata fitusa,’nfami, tutta un arramazzarsi, un votati e rivotati, un addrummisciti e un arrisbigliati, un susiti e un curcati. E non per colpa di una manciatina eccessiva di purpi a strascinasali o di sarde a beccafico fatta la sira avanti, perché almeno una scascione di quell’affannata insonnia ci sarebbe stata, invece, nossignore, manco questa soddisfazione poteva pigliarsi, la sira avanti aviva avuto lo stomaco accussì stritto che non ci sarebbe passato manco un filo d’erba. Si era trattato dei pinsèri nìvuri che l’avevano assugliato doppo avere sentito una notizia del telegiornale nazionale.

Le immagini che passano sullo schermo non solo non lo lasciano indifferente, ma gli arrivano come «una vera e propria pitrata tiratagli addosso, anzi una pitrata che l’aviva pigliato preciso ’n testa, tramortendolo e facendogli perdere le ultime, debolissime forze». Lo storico commissario, che da anni lavora a Vigata e risolve ogni tipo di crimine, decide che questo è troppo da sopportare e che le forze dell’ordine per cui lavora non lo rappresentano più. Si vuole dimettere.

Naturalmente la carriera di Montalbano non termina tanto presto e non è una grande anticipazione ricordare che manterrà il suo ruolo di commissario, vista la mole di libri pubblicati in seguito e con lui come protagonista. Grazie ad alcuni escamotage narrativi, il momento in cui dovrebbe rassegnare le dimissioni viene costantemente rimandato, fino a sfumare e a essere dimenticato. Nonostante ciò la scelta di Camilleri non è solo letteraria, ma culturale e politica.

Una scena della trasposizione televisiva del Giro di boa (2005) in cui Montalbano dichiara di volersi dimettere

La posizione del commissario è netta, espressa con forza e senza oscillazioni. Si tratta di una condanna ferma rivolta alle forze dell’ordine intervenute durante il G8 di Genova (e prima a Napoli). Una serie di episodi che a Montalbano – e a Camilleri – ricordano gli abusi della polizia fascista. Il protagonista non lascia spazio a mezze misure o all’interpretazione:

Bastava ragionare tanticchia supra quelle notizie che venivano date col contagocce e con governativa osservanza dalla stampa e dalla televisione per farsi preciso concetto: i suoi compagni e colleghi, a Genova, avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba.

Eppure questa presa di posizione così precisa viene assegnata dall’autore a un membro delle stesse forze dell’ordine che hanno partecipato agli episodi violenti. Un punto di vista interno, per quanto riguarda la professione, ma da cui contemporaneamente se ne distacca. Montalbano si sente tradito e con lui tutte le persone che guardavano con fiducia all’istituzione della polizia. La sua condanna risulta ancora più forte proprio perché appartiene al mondo criticato.

Montalbano contesta le misure di sicurezza adottate prima dell’inizio del G8, «assai più adatte a una guerra civile imminente che a una riunione di capi di governo» e che hanno aumentato la tensione già presente. «C’era […] un eccesso di difesa tanto ostentato da costituire una specie di provocazione», sostiene il commissario, che individua come elemento più grave «il comportamento di alcuni reparti della polizia che avevano preferito sparare lacrimogeni su pacifici manifestanti lasciando liberi di fare e disfare i più violenti». L’analisi di Montalbano è molto lucida: questi eventi derivano dal fatto che le forze dell’ordine si sono sentite protette, libere di agire senza remore.

Il riferimento esplicito al G8 occupa solo la prima porzione del romanzo. Considerando però che poi l’attenzione si sposta sull’omicidio da risolvere (connesso al traffico di esseri umani), la ventina di pagine dedicate ai fatti genovesi non risulta troppo contenuta né priva di importanza. Non sono del tutto utili alla narrazione (la storia può svolgersi anche senza di esse) e quindi diventano un manifesto, una presa di posizione dell’autore nei confronti di un evento storico che divideva e in parte continua a dividere l’opinione pubblica.