Con i “fatti di Tiananmen”, il Partito-Stato ha dimostrato come non sia possibile un dialogo paritetico con la società civile. In cambio della promessa dello sviluppo e della modernizzazione, l’autorità non potrà mai essere messa in discussione. Ancora oggi, il ricordo della repressione nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 rimane proibito.
Per il secondo anno consecutivo, la polizia di Hong Kong, indicando come causa il rischio del contagio da Covid-19, ha vietato le manifestazioni in ricordo dei “fatti di Tiananmen” nel 1989. L’anno scorso, però, la popolazione ha superato le barriere, fisiche e non, per commemorare le vittime del massacro con la tradizionale veglia a lume di candela al Victoria Park. Di conseguenza quattro attivisti, tra cui Joshua Wong, sono stati condannati per assembramento non autorizzato. Oggi i militanti pro-democrazia non ci stanno, e ritengono che le autorità usino il pretesto della pandemia per bloccare quegli eventi politicamente sensibili. I casi di coronavirus riportati sono relativamente bassi (nelle scorse settimane solo 24 in una città di 7 milioni e mezzo di abitanti). In un momento critico per la sopravvivenza della città, dopo l’approvazione della controversa legge sulla sicurezza nazionale dell’anno scorso, e della più recente riforma elettorale che aumenta il numero dei deputati nominati da Beijing, la Hong Kong Alliance non intende rinunciare alla veglia del 4 giugno e ha invitato i cittadini a “scendere in strada e accendere una candela, che non potrà mai essere contro la legge”.
La repressione di Piazza Tiananmen e nelle altre città coinvolte nelle proteste è stato lo spartiacque della storia della Repubblica Popolare Cinese. Negli anni Ottanta la Cina era in pieno fermento culturale. Un notevole dibattito intellettuale sulla storia cinese e sulla sua identità accompagnava un periodo di libertà espressiva in tutti gli ambiti. L’aumento della produttività era fonte di legittimità per il partito che riusciva nell’impresa di migliorare il benessere dei propri cittadini, lasciandosi alle spalle le guerre civili e la povertà. Dopo la morte di Mao Zedong è terminata la visione dello stato centralizzato e pianificatore con la burocrazia che aveva un controllo totale; la trasformazione sociale voluta da Deng Xiaoping mirava a restituire importanza al mercato e a rompere l’isolamento della RPC con il resto dell’economia globale.
Contemporaneamente si assisteva a un processo di proletarizzazione, con masse di contadini che si riversavano nelle città e, con i primi smantellamenti delle State Owned Enterprises (SOE), del sistema di welfare conosciuto come “ciotola di riso ferrea” (tiefanwan, 铁饭碗), e l’incentivo alle iniziative imprenditoriali private, aumentò il gap salariale dei lavoratori. L’arricchimento non coinvolse la classe operaia nel suo complesso. Le rivendicazioni dei lavoratori erano rivolte al Partito che non attuò una politica redistributiva del surplus commerciale, provocando scioperi e disordini: l’unico a favore del dialogo fu Hu Yaobang, Segretario Generale del Partito Comunista Cinese dal 1982 al 1987 (quando fu epurato dal leader Deng Xiaoping) che morì per attacco di cuore il 15 aprile 1989 durante una riunione del Partito. Hu fu tra i riformatori più amati del paese. Aiutò Deng nell’accelerare la crescita economica cinese e a cancellare gli strascichi della Rivoluzione Culturale del periodo maoista. Il 22 aprile si tennero i funerali di stato e le decine migliaia di studenti riuniti nel tributare le esequie decisero di occupare la piazza dando vita al movimento della primavera cinese, direttamente ispirato a quello del 4 maggio 1919.
Le parole d’ordine del movimento furono “patriottismo” e “virtù”. Gli slogan degli studenti colpivano i quadri corrotti del partito, colpevole di aver tradito gli ideali rivoluzionari. La principale rivendicazione degli studenti non erano le elezioni democratiche in senso pratico, quanto più l’accountability. Il Partito doveva accettare un dialogo paritetico con la società civile. Il Comitato Centrale doveva rendere conto del proprio operato ai cittadini: una richiesta considerata inaccettabile. Il 26 aprile un editoriale del Quotidiano del Popolo condannò le proteste: il chaos (dongluan, 动乱) di una minoranza faziosa di lavoratori e studenti doveva fermarsi.
I primi tentativi dell’esercito di circoscrivere la protesta furono soffocati dalla folla numerosa, e il 13 maggio gli studenti cominciano lo sciopero della fame. La stampa straniera, giunta a Pechino per la visita del presidente sovietico Michail Sergeevič Gorbačëv, rivolge i riflettori alla protesta nella piazza più grande del mondo. Gli studenti sfruttarono la visibilità internazionale della visita del capo di stato dell’URSS per promuovere le loro rivendicazioni. La mattina del 18 maggio, il comitato permanente del Politburo e gli Otto Immortali votarono per la legge marziale.
Nelle prime ore del mattino del 19 maggio, il segretario generale Zhao Ziyang, unico oppositore alla legge marziale e alla successiva repressione, scese in piazza rivolgendosi agli studenti: “Siamo arrivati troppo tardi. […] non potete continuare lo sciopero della fame per il settimo giorno. […] Inoltre, Pechino è la capitale, la situazione sta peggiorando dappertutto, questo non può continuare. Tutti gli studenti hanno una buona volontà, e voi siete il bene della nostra nazione […]”. Il discorso agli studenti per porre fine all’occupazione della piazza costerà a Zhao l’epurazione, l’abbandono di ogni carica pubblica e gli arresti domiciliari fino alla morte.
Dopo la proclamazione della legge marziale, il segmento operaio ruppe lo stato d’assedio e si unì alla protesta. È il punto di rottura. La rivolta va ben oltre il movimento studentesco e nelle periferie della capitale avvengono i primi scontri, anche se alcune unità militari si oppongono agli sgomberi tra gli applausi dei cittadini cinesi.
Agli inizi di giugno l’intransigenza degli studenti non trova più appoggio nel partito in quanto la linea riformista viene messa da parte in favore della linea conservatrice. Come riportano i Tiananmen papers, l’ordine della repressione fu dato dal leader Deng Xiaoping, da sempre contrario al dialogo (duihua, 对话) di Zhao. Gli abitanti si riversano nelle strade la notte del 3 giugno per bloccare l’avanzata dell’Esercito Popolare di Liberazione. Si compie il “massacro di Pechino” con oltre 300 morti stimati dal Partito, ma diverse migliaia secondo fonti internazionali. Il maggior numero di vittime si ebbe negli scontri del viale dell’Eterna pace, un miglio a ovest dalla piazza. Nella periferia occidentale furono uccisi soprattutto operai e residenti.
Nei giorni seguenti si attuò una caccia ai contestatori che furono imprigionati o esiliati. Le immagini della notte del 3 e 4 giugno fecero il giro del mondo. Unanime fu la condanna dei paesi occidentali e il congelamento delle relazioni diplomatiche (fino all’embargo). Il 9 giugno Deng condannò l’agitazione degli studenti, una minoranza sovversiva che intendeva rovesciare il Partito e lo Stato. Seguirono le purghe di ufficiali e politici che difesero i manifestanti, e l’elezione di Jiang Zemin come nuovo Segretario Generale del PCC.
Il 5 giugno 1989, il giorno successivo alla brutale repressione, un ragazzo di 19 anni si parò davanti all’avanzata della lunga fila di carri armati che stavano abbandonando piazza Tiananmen. Il mezzo in testa alla colonna provò a girargli intorno senza successo. Il ragazzo con la busta della spesa e una giacca tenuta in mano si arrampicò sulla torretta e parlò con il pilota imponendogli di andarsene. Bloccando gli altri tentativi di avanzata, fu portato via da altre persone. Del Rivoltoso Sconosciuto non si seppe più nulla.
Alla fine, ha ragione il vincitore che scrive la storia. Nel futuro, il perimetro delle riforme sarà solamente di carattere economico. Ciò che avvenne trent’anni fa in piazza Tiananmen, nel cuore di Beijing, non dovrà ripetersi mai più.