Correva l’anno 1958, l’anno che segnava storicamente l’avvio del boom economico italiano, il momento in cui il nostro paese si avviava verso un’inarrestabile modernizzazione e industrializzazione, lasciandosi alle spalle definitivamente le miserie del dopoguerra e un paese ancora fortemente legato alla terra e a una tradizione contadina. In quello stesso anno il documentarista Luigi di Gianni si era appena affacciato agli studi dell’antropologo e demologo Ernesto de Martino; in particolare, a una spedizione in Lucania per indagare la sopravvivenza di forme e pratiche magiche nel territorio. Come dichiarato dallo stesso di Gianni in un’intervista per il Manifesto, ne rimase affascinato al punto da entrare in contatto con lui, con la proposta di un documentario etnografico proprio sulla magia lucana, cui avrebbe apposto il nome in calce di De Martino per la sua consulenza.
Correva l’anno 1958 e nasceva così il primo cortometraggio documentaristico di Luigi di Gianni, Magia Lucana, che segnerà un percorso e una vita a raccontare dell’ambivalenza e delle contraddizioni del nostro paese e, soprattutto, delle sue sopravvivenze arcaiche: da una parte il boom, dall’altra gli inni al sole e gli scongiuri alla pioggia.
Guardare la Basilicata attraverso le testimonianze visive di Luigi di Gianni significa fare un doppio salto temporale: prima a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 e poi, allo stesso tempo, tra le pieghe di un passato remoto, echi che sopravvivevano, nonostante tutto, all’incalzare del moderno. E affacciarsi oggi al lavoro di Luigi di Gianni, scomparso due anni fa, nel 2019, significa accedere con sorpresa a un mondo che crederemmo sepolto nella memoria, e che al contrario è stato documentato da delle cineprese nemmeno settant’anni fa. Tempi che coesistono, si contraddicono, dicono l’una e l’altra cosa. Una realtà che già ai suoi tempi veniva ignorata, passava sottotraccia, silenziosa.
In questo doppio viaggio nel tempo, già dai primi istanti di Magia Lucana sembra di assistere a un paradosso temporale: un contadino, con la falce in mano, recita delle formule – gli scongiuri – per cacciar via la “nuvola cattiva”: «Vattinne lontanu», continua a ripetere in una cantilena, perché la pioggia è il nemico più grande, e il sole l’alleato più prezioso. «Parlano con le nuvole e il cielo» chiosa la voce fuori campo di un giovane Arnoldo Foa, è la lotta del contadino lucano contro la natura. Una vita faticosa, in continuo contrasto con la terra, come i lunghi viaggi a dorso di mulo nel tornare a casa, una casa lontana, che nemmeno si vede in lontananza.
Ed è in questo profondo rapporto con la natura, fatto di vicinanza e contrasto, che muta anche la rappresentazione del mondo del contadino lucano; una rappresentazione in cui il corpo è legato al mondo e alla natura al punto da esserne influenzato da forze al di sopra di lui: «Qui anche il male fisico ha una causa sovrannaturale» continua Foa, e le fantasie dei riti magici vivono ancora, anzi, sopravvivono tra gli spazi di questi luoghi. Se il corpo si ammala le forze esterne vanno scacciate. Ed ecco che entrano in gioco maghe e fattucchiere, e termini come “fattura”, “malìa”, “filtro d’amore”. E quando si decide di consultare un mago, allora si deve rispettare il suo spazio protetto, e si può consultarlo solo dietro la finestra. Liminalità: quello spazio che separa il mago dal contadino è lo spazio che separa il contadino dalla modernità che incalza nel paese, con le sue contraddizioni. Che ne sarà di lui?
Qualche anno dopo, nel 1965, di Gianni prova a rispondere a questa domanda con Viaggio in Lucania, un lavoro che da documento etnografico si fa denuncia sociale, racconto di un profondo squilibrio tra i paesi del nord e quelli del sud: moderno e pre-moderno, in un dialogo impossibile. Il caso di Monticchio, e in particolare di un feudo a quattro chilometri, è l’estrema conseguenza del nostro doppio salto temporale, di una coesistenza paradossale, «il nuovo apparente e il vecchissimo reale», come racconta ancora una volta la voce fuori campo: «A 100 anni dall’Unità il contadino non è libero neanche di costruirsi una casa […] Quattro chilometri che sono un viaggio nel tempo». Così, si poteva ancora assistere a un reale, pur non formale, diritto di vita e morte sui propri sudditi. In questo estremo contrasto la modernità, o perlomeno un timido accenno lontano, si palesava con la costruzione di case nuove; case che però, per via degli affitti troppo alti, rimanevano vuote, inabitate. I contadini continuavano a vivere in tuguri, nel loro mondo realmente pre-moderno, e quella modernità che scorgevano in lontananza all’orizzonte, con i tubi di scarico giganteschi delle fabbriche, era il loro avvenire, in una radicale mutazione che, in quel tempo, era ancora ibridata: si configurava così «la figura tutta meridionale dell’operaio contadino […] Non è più contadino, ma non è ancora operaio».
Erano passati sette anni da Magia Lucana e la modernità italiana sembrava essere ormai un dato di fatto; eppure i contrasti continuavano a permanere, tra riti magici e souvenir, tra malocchi e turismo.
L’orizzonte del contadino lucano era ancora incerto, ma l’orizzonte reale, di fronte a panorami sterminati e a quel sole così prezioso, era certo. Quell’inno al sole, forse, non l’avrebbe dimenticato. E oggi, grazie all’opera di Luigi di Gianni, noi possiamo ricordarlo.