«Questi versi del contrasto di Cielo d’Alcamo appartengono a una memoria condivisa che passa attraverso la formazione scolastica». Così Giuseppe Polimeni, docente all’Università degli Studi di Milano, si riferisce al Contrasto di Cielo d’Alcamo, testo del Duecento e pietra miliare della letteratura italiana. Che cosa sappiamo, però, del suo autore? E dei riferimenti erotici costantemente presenti?
Innanzitutto siamo davanti a un’identità celata dietro un appellativo incerto. Il manoscritto reca una nota che recita Cielo dal Camo e Glauco Sanga ha messo in discussione la seconda parte del nome: «La tradizionale ricostruzione d’Alcamo – con riferimento alla località siciliana – è del tutto arbitraria». Potrebbe trattarsi proprio di dal Camo, nome personale o giullaresco. In latino medievale, infatti, camus significava museruola, mentre in italiano antico l’espressione essere in camo indicava l’azione di dare fastidio. Ciullo, d’Alcamo, dal Camo: un’identità sfuggevole.
Il Contrasto è considerato il primo testo della nostra letteratura, una pietra miliare. Questo suo ruolo fondamentale per la definizione del canone dell’italiano, sia come lingua che come letteratura, gli è stato assegnato da De Sanctis nella Storia della letteratura italiana del 1870. Il suo scopo era farne una lettura romantica, dipingendone la lingua come espressione autentica del popolo siciliano.
Questa visione del Contrasto, però, è stata messa in discussione con riferimento alla complessità del testo. Si è aperto quindi un dibattito sulla cultura di Cielo d’Alcamo: chi è quest’uomo di cui ci resta (forse) solo il nome? Sembra un autore non rozzo, ma colto che scrive un componimento popolare, facendo dialogare fonti diverse.
Il primo a citare il Contrasto di Cielo d’Alcamo, però, è proprio il “padre della lingua italiana” nel De vulgari eloquentia. Dante indaga i diversi volgari diffusi sul territorio italiano per trovare quello che abbia una natura più simile alla gramatica e che sia quindi adatto a scrivere canzoni. Di quale lingua parla però Dante? E quale lingua leggiamo noi oggi quando ci troviamo davanti alla poesia di Cielo d’Alcamo?
Come per tutti i componimenti della scuola siciliana – cioè la scuola poetica sviluppatosi attorno alla metà del XIII sec. nella corte siciliana di Federico II di Svevia –, i testi originali sono passati per le mani dei copisti toscani, che ne hanno adattato la presunta lingua originaria alla loro varietà. Nonostante ciò, alcuni tratti linguistici meridionali e più specificatamente siciliani si sono conservati. Ne sono un esempio il monottongo da o breve (core) e il condizionale siciliano (caderia).
Il Contrasto è un testo singolare anche per il suo profilo, perché si tratta di un dialogo tra due personaggi: una donna e un uomo, che cerca di convincerla ad avere una relazione con lui. Le strofe alternano le battute dei due in una sorta di botta e risposta. Il personaggio maschile usa molte armi retoriche e mostra come si trasforma la dialettica sulla bocca del popolo. Anche quello femminile, però, non si risparmia: coglie l’allusività delle frasi rivoltele e risponde a tono. Durante il loro dialogo, si attua uno scontro tra registri linguistici: vengono citate la letteratura siciliana e provenzale e poi immagini e forme popolari, creando degli innalzamenti tonali e degli abbassamenti repentini in una messa in discussione del linguaggio poetico.
Di che cosa discutono i due protagonisti? L’uomo le dichiara il grande desiderio che prova nei suoi confronti, ma lei lo rifiuta, sostenendo che piuttosto di diventare la sua amante, si farebbe suora. Nulla sembra smuoverla, né la dichiarazione di una forte passione, né la promessa di ricchezze e nemmeno ricordarle il suo ruolo («femina d’omo non si può tenere», la femmina non può fare a meno dell’uomo). Solo dopo che l’uomo le confida di aver cercato una donna più bella e cortese in molti paesi, dalla Calabria alla Lombardia, da Costantinopoli a Babilonia, lei lo spinge a parlare con i suoi genitori per chiederla in sposa.
A questo punto il gioco cambia: l’uomo non accetta la proposta suggeritagli e la deride, non ritenendola veritiera. Al disinteresse della donna per questo cambio di rotta, il giullare alza la posta: “non me ne andrei di qui prima di godere del frutto del tuo giardino”, che naturalmente – ribatte lei – non hanno avuto persone ben più potenti, quindi non c’è motivo per cui l’abbia proprio lui. Alle continue insistenze la donna ribadisce le sue condizioni: avrà un rapporto con lui solo se si sposano.
Lei, infatti, preferisce morire che diventare la sua amante, ma l’uomo le risponde per le rime: se lei dovesse morire, lui ne troverebbe il corpo «solo per questa cosa adimpretare: con teco m’aio agiungiere a pecare», solo per ottenere questa cosa: con te mi voglio unire per peccare. Segue dunque una rimodulazione della posizione femminile: “giura sul Vangelo e io sarò tua”. Il giullare naturalmente ha il testo sacro in tasca, compie la promessa e arriva la risposta tanto attesa, che chiude il Contrasto: «A lo letto ne gimo a la bon’ora, ché chissa cosa n’è data in ventura», andiamo subito a letto, perché questa cosa ci è stata data dalla sorte.
Questo dialogo costante non è una storia d’amore, come tanti testi della scuola siciliana. È invece, con i suoi tratti popolareggianti e i riferimenti erotici, una parodia dell’amor cortese. Siamo davanti a un esercizio oratorio, una contrattazione tra due individui che mirano, con giochi di parole e persuasioni, a ottenere i massimi vantaggi.
Una questione che si situa a metà tra la linguistica e la retorica ha impegnato la filologia per lungo tempo: che cosa indica la rosa presente fin dal primo verso? Su questa metafora si è concentrato a lungo Roberto Rea, docente all’Università Tor Vergata di Roma, nel suo saggio Dubbiosi disiri. Limitandosi alla comprensione letterale del testo, si può dedurre che la rosa è un fiore primaverile, simbolo di bellezza e amore, quindi desiderato da tutte le donne, giovani o meno. In alcuni casi, nella letteratura, la rosa rappresenta la donna, ma questa interpretazione è in contrasto con il secondo verso che, escludendo la possibilità di un amore lesbico (impensabile in questo contesto), sarebbe privo di significato.
Per rendere accettabile questa interpretazione, sono state avanzate varie ipotesi di correzione del testo che si ipotizza corrotto dall’attività dei copisti. Le donne del v. 2 sono state trasformate in homini o dompni (signori in napoletano), ma infine questa teoria è stata respinta. Con una seconda ipotesi si propone di leggere una sospensione della metafora: rosa indica la donna nel primo verso, ma poi l’immagine viene abbandonata. Questo è poco credibile per un autore colto come Cielo d’Alcamo. Inoltre l’autore riprende un incipit molto diffuso nella letteratura del tempo e nei casi simili la metafora non viene sospesa.
Eppure l’immagine della rosa è diffusa non solo nei testi colti, ma anche e soprattutto in quelli di genere mediocre per introdurre dei doppi sensi di tipo erotico. Questi, infatti, sono numerosi anche all’interno del Contrasto: una metafora guerresca («bolta sottana») richiama l’atto sessuale, il «manganiello» richiama il pene, mentre il «castello» la vulva, rappresentata anche dal topos del giardino delle delizie. In molti punti il testo può essere letto come un chiaro richiamo al rapporto carnale tra i due protagonisti e da qui nasce un’ultima interpretazione della rosa: il sesso della donna o il piacere sessuale.
Questo tipo di metafora ha origini antichissime ed è presente persino nella Bibbia, nella poesia greca e in quella latina. Il superlativo che immediatamente la segue, «aulentissima», sottolinea questo gioco di parole, rimandando all’odore o all’azione dell’odorare che rafforza l’allusività della metafora. Lo stesso fa il verbo «disiano», espressione di un desiderio erotico vissuto non solo dal personaggio maschile, ma anche dalle donne, giovani o meno. Sono riferimenti sottili, ma ben chiari al pubblico dell’epoca e vengono costruiti proprio con i termini chiave della letteratura cortese, che ne risulta parodiata.
Il protagonista del Contrasto parla quindi di desiderio per il sesso, non per la donna. Tale conclusione rimarca nuovamente quanto questo confronto non sia una poesia d’amore, ma uno scontro retorico e di potere, dove si sfoderano le armi della parola, ci si provoca a vicenda e si sfidano addirittura i modelli letterari prevalenti al tempo. Di Cielo d’Alcamo, autore dall’identità rarefatta e poco chiara, è giunto a noi solo questo componimento. Un testo che costituisce il fondamento della letteratura italiana e che lo è proprio con i suoi giochi parodici e i sottotesti erotici.