“Mercoledì di Coppa” è il nuovo speciale della redazione di Olympia, che vuole analizzare e contestualizzare la nascita e lo sviluppo delle competizioni UEFA per club. Dalla Coppa dei Campioni nata nel 1955, fino alla possibilità, di cui si parla ormai da tempo, di creare una nuova Superlega con tutti i migliori club d’Europa. Il viaggio, in questi 75 anni, è stato lungo e tortuoso e ha visto il fiorire di diversi tornei di differente importanza: Champions League, Europa League, Coppa delle Coppe, Mitropa Cup, Intertoto, Europa Conference League.
Ogni trofeo ha la sua storia, è nato in momenti storici diversi ed è cambiato insieme al calcio. La redazione prova a riannodare i fili partendo dal principio, con lo scopo di cercare di capire qual è il futuro che ci attende.
Nel descrivere il match che avrebbe portato alla nascita della Coppa dei Campioni, un inconsapevole Gabriel Hanot, ex calciatore e all’epoca inviato a Wolverhampton per l’Équipe, definì il calcio come «una distrazione, una gioia, quasi un inno di liberazione». A impressionarlo in particolar modo era stato quell’atto di «comunione sportiva» di una folla che per 90 minuti si era dimostrata indifferente a un temporale «ben più forte rispetto a tutto ciò che esiste in Francia», un prezzo pagato ben volentieri dai tifosi di casa, ben 55.000, che in cambio videro i Wolves ribaltare eroicamente il doppio vantaggio dell’Honvéd Budapest, vincendo così 3-2 anche la seconda delle amichevoli in notturna inizialmente pensate per inaugurare l’impianto di illuminazione del Molineux Stadium, ma finite poi per rivestire un ruolo ben più importante.
Quello spettacolo visto dal vivo, acuì una sensazione che Hanot si portava dietro da qualche tempo, da appassionato del gioco ancor prima che da giornalista, ovvero il fatto che le società non disponessero di palcoscenici all’altezza degli sforzi fatti per attirare sempre più gente allo stadio, e quindi meritassero di più. La proposta di un campionato d’Europa tra i migliori club di un continente all’epoca profondamente diviso, vergata da Hanot sull’edizione dell’Équipe del 15 dicembre 1954, è stata il punto di partenza del viaggio di The Pitch alle origini delle competizioni UEFA ed è prerogativa fondamentale per una riflessione sul futuro delle stesse. Ci voleva passione, tanta, per farsi carico dell’organizzazione di un torneo che avrebbe dovuto agire da cerniera in un’Europa spaccata in due dalla cortina di ferro. Lo stesso sentimento si ritrova nelle parole che il fondatore della testata francese Jacques Goddet rivolse nel giugno 1956 a Santiago Bernabéu, primo presidente a vincere la neonata Coppa dei Campioni. Stando a un articolo di Vincent Duluc, uscito recentemente sull’Équipe, la frase che accompagnò la consegna del trofeo fu:
Goddet non mentì, ma si scordò di aggiungere che la Ligue des Champions era figlia anche del suo portafoglio, che gli aveva permesso di invitare qualche mese prima vari club europei a Parigi, un viaggio interamente spesato per convincere gli interlocutori, già interessati, a realizzare concretamente il progetto. Il tassello mancante finale fu il ripensamento di FIFA e UEFA, che, dopo essersi mostrate scettiche sulla proposta, capirono quanto il guadagno superasse le perdite: l’idea di un torneo di proporzioni contentali organizzato dalle squadre e da un giornale era sufficiente a far correre i brividi lungo la schiena dei grandi capi del calcio di allora.
Quindi: il pubblico, rappresentato dai giornalisti, le squadre e, infine, le istituzioni. A distanza di oltre mezzo secolo, sono le stesse le parti sedute al grande tavolo del calcio europeo, ma il fatidico discorso sulla Superlega, o Super League, passa dalla comprensione dei cambiamenti nei rapporti di forza tra queste fazioni. Ormai si sa: le ripetute modifiche al format della Coppa dei Campioni sono arrivate negli anni per soddisfare le crescenti pretese dei club partecipanti, soprattutto dei più forti, desiderosi di giocare di più, farlo contro i migliori e diventare più ricchi.
A rappresentare il game-changer fu l’arrivo della televisione e, a ruota, dei diritti che le emittenti cominciarono a riconoscere all’ente organizzatore e che sarebbero poi, almeno in parte, piovuti nella casse delle società protagoniste. Nel 1980 il piccolo schermo era ormai entrato nelle case di tanti italiani e da soli tre anni offriva persino i colori, una cornice perfetta per esaltare il colpaccio con cui il fondatore di Fininvest Silvio Berlusconi acquistò i diritti del Mundialito, competizione disputata in Uruguay e rimasta ad oggi unica nella storia. Cominciava all’epoca a diffondersi la sensazione che, ad un pubblico inizialmente contento di vedere le cronache radiofoniche trasformate in immagini, alcuni spettacoli potessero piacere più di altri: un torneo che includeva tutte le nazionali campioni del mondo fino a quel momento – Inghilterra a parte, che rifiutò l’invito – rientrava sicuramente nella prima delle due categorie, tanto da valere i 900mila dollari pagati per poter trasmettere tutte le gare.
Pur senza il peso dei diritti televisivi a guidare ogni scelta, al contrario di quanto accade oggi, fu su un presupposto simile che la UEFA decise di modificare il format della Coppa dei Campioni. A partire dalla stagione 1979/80, nelle dieci edizioni successive della competizione cadono al primo turno, in anni diversi, squadre dal grande blasone quali Nottingham Forest, Milan, Celtic, Ajax (più volte), Inter o Psv, eliminazioni che impoveriscono il gioco e rischiano di far perdere spettatori. Nascono quindi due gironi da quattro che prendono il posto di quarti di finale e semifinale, iniziativa che precede l’allargamento vero e proprio della competizione del 1997/98, che non riguarda più solo le partite ma anche il numero di partecipanti: le migliori federazioni, infatti, hanno la possibilità di iscrivere una seconda squadra.
Pensateci, ci siamo già: più squadre, più tifosi, più partite, più soldi. Rispetto al 1980, le emittenti televisive si sono moltiplicate e le cifre sul tavolo si fanno più alte. Insomma, la strada è tracciata e non è il caso di ripercorrerla passo per passo, pena il rischio di ripetersi senza aggiungere nulla.
D’altronde, proprio nel 1998 Rodolfo Hecht, uomo vicino a Berlusconi nonché presidente di Media Partners, avanzò la prima proposta di una Superlega europea, creata da 16 membri fondatori invitati e per certi aspetti già simile alla bozza del progetto “Big Picture” diffusa da Sky Sports e altri media a partire dallo scorso ottobre.
All’interno di questo ampio arco temporale, è possibile rintracciare alcune tappe significative che, periodicamente, hanno riaperto un dibattito mai veramente sepolto, al massimo nascosto sotto un tappeto in attesa di tempi migliori. Dopo circa 10 anni di relativa calma, nel gennaio 2008 nasce l’European Club Association (ECA), una rinnovata versione di quel G14 che dal 2000 includeva, appunto, le 14 squadre più prestigiose d’Europa, un’organizzazione che però, secondo la UEFA, aveva il difetto di sembrare troppo “elitaria“. In nome di una maggiore apertura, l’ECA avrebbe quindi avuto il ruolo di rappresentare indistintamente i diritti e gli interessi di tutte le società coinvolte nel calcio europeo, ma in realtà fu una sorta di favore che i club – più o meno sempre gli stessi – fecero alla UEFA in cambio di maggior ascolto sui soliti temi: più visibilità, più soldi, più partite.
Nell’anno successivo, l’Équipe rivela l’esistenza di un progetto segreto, definito questa volta “Supercampionato d’Europa” ma uguale nella sostanza all’idea di 10 anni prima che – scrive il quotidiano francese – «non è morta con la dissoluzione del G14 ma è stata gelosamente conservata». Sempre in quei mesi, in seguito alla quinta eliminazione consecutiva del suo Real Madrid agli ottavi di finale di Champions League, il presidente Florentino Perez non usa giri di parole:
Fast-forward al 2018 e si arriva alle porte della trasformazione più grande, seppur non ancora realizzata. Nel giro di un decennio, la UEFA ha preso nota dei continui “pizzini” fatti scivolare sotto la porta dai grandi club: per il triennio 2018-2021, viene approvata la riforma che prevede quattro squadre fisse alla fase a gironi della Champions League per le prime quattro nazioni del ranking e una significativa ridistribuzione dei premi. In particolare, scende al 15% la quota del market pool, che è proporzionale al valore dei diritti televisivi nelle singole nazioni, aumenta il peso dei risultati stagionali ottenuti nella competizione e, soprattutto, viene introdotto il cosiddetto “ranking storico”, che determina la suddivisione del 30% dei premi totali in base al rendimento degli ultimi 10 anni, favorendo così – ça va sans dire – quelle squadre più inclini ad arrivare in fondo. Insomma, una Champions d’oro, che elargisce circa 900mila euro per ogni punto guadagnato nel girone e che può fruttare al vincitore anche più di 100 milioni.
A novembre 2018, però, Football Leaks apre lo scrigno del calcio e rivela cosa c’è dietro questi ritocchi: due anni prima, nel 2016, 11 club europei, guidati dal Real Madrid, sarebbero stati pronti a mettere su bianco la scissione e a formare la nuova Super League, un campionato a 16 squadre e senza retrocessioni, pensato per scolpire su pietra lo strapotere economico delle società coinvolte. La UEFA, così, non ha altra scelta che rivedere al rialzo i premi del suo gioiello, al quale una eventuale Superlega ovviamente si sovrapporrebbe lasciando le briciole.
Sempre secondo Football Leaks, lo stesso massimo organo del calcio europeo è protagonista di una mediazione che, da parte dei club, viene portata avanti anche da Andrea Agnelli, che dal 2017 ha sostituito Karl-Heinz Rummenigge nelle vesti di presidente dell’ECA. Giovane, ambizioso e spigliato, il numero uno della Juventus è chiaramente la figura ideale per portare avanti una transizione che naturalmente non si è spenta con il ripensamento della Champions League. Anche con la nuova formula, la “coppa dalle grandi orecchie” è terreno fertile per favole d’altri tempi, come quella dell’Ajax che raggiunge le semifinali nel 2018/19 eliminando proprio la Juventus, ma soprattutto come quella dell’Atalanta, che nella stagione successiva, da debuttante assoluta, si ferma solo ai quarti di finale per mano del Psg.
Proprio l’exploit della Dea diventa occasione per Agnelli per riflettere su una squadra che «senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto o no?». La domanda, va da sé, è retorica per tutti, ma in due modi differenti. Al punto di vista di chi non può che entusiasmarsi di fronte all’imprevedibilità del gioco più bello al mondo, si contrappone quello del proprietario di uno dei club più forti del globo, che in sostanza, in virtù di spese sempre più importanti, non riesce ad accettare che l’accesso alla competizione più ricca al mondo possa dipendere unicamente da quanto dimostrato e meritato sul rettangolo verde. Un paradosso che, tuttavia, ha ripreso a farsi sentire con maggiore prepotenza dopo lo scoppio della pandemia, che ha messo in ginocchio anche quelle società che, abituate ad appoggiarsi alle proprie risorse economiche, hanno dovuto far fronte a un calo drammatico dei ricavi che si è ripercosso sulle loro capacità di spesa.
Non ci interessa, in questa sede, soffermarci tanto sulla più recente proposta di Superlega, quella che sarebbe finanziata da JP Morgan e che prevederebbe gare di andata e ritorno prima di una fase a eliminazione diretta. Ugualmente, è poco utile discutere delle ennesime modifiche che la UEFA vorrebbe implementare dal 2024, creando una Champions League basata su un sistema “alla svizzera“, che vedrebbe l’eliminazione della fase a gironi oltre all’aumento di partecipanti e – guarda caso – di partite giocate. Non interessa semplicemente perché si tratta di fasi momentanee, specchietti per le allodole che nascondono le trattative che si tengono al vertice della piramide del calcio europeo.
Piuttosto, come si diceva, è opportuno ragionare sul cambio di paradigma: rispetto alle società ingenue e inesperte che si riunirono al tavolo di Jacques Goddet, quelle di oggi contano sulla consapevolezza data da una tradizione di ben 80 anni. In altre parole, i club che spingono incessantemente per il cambiamento sanno di essere i più importanti e vincenti d’Europa, sanno di avere tra le proprie fila i calciatori migliori al mondo e, inevitabilmente, sanno che il pubblico sarà pronto a seguirli.
In tal senso, il netto comunicato firmato da UEFA e FIFA, uscito all’indomani delle ennesime voci riguardanti la Superlega, fa pensare a un punto di rottura. Affermare apertamente che i giocatori partecipanti a tale competizione sarebbero esclusi dal Mondiale o dalla Champions League, fa pensare che alle istituzioni, dopo ripetuti tentativi di accontentare i top club, sia sfuggito il controllo della situazione. Peccato che sia stata proprio questa tendenza ad accontentare la crescente ingordigia delle società a mettere queste ultime nella posizione di poter pretendere come mai prima.
A prescindere dall’esito di questo episodio – difficilmente l’ultimo -, la sensazione è che, sul lungo periodo, non ci sia modo per la UEFA di dare ai club ciò che otterrebbero “mettendosi in proprio“. Ma siccome i tifosi rimangono ingranaggio fondamentale di questa macchina, è lecito chiedersi in che modo cambierebbe lo spettacolo più atteso, quello che fa somigliare un mercoledì a una domenica e che porta milioni di persone a seguire le sorti di una “Cenerentola” mai sentita fino a poco prima.
Sul New York Times, Rory Smith affronta un punto molto valido quando si domanda chi reciterebbe il ruolo del West Bromwich, o di qualsiasi altra squadra di medio-bassa classifica, in un’ipotetica Superlega:
A questa, va aggiunta una riflessione sulle cosiddette sfide di cartello, destinate a diventare assolutamente normali: come potremmo esaltarci per una finale tra Bayern-Juventus, quando lo stesso incrocio potrebbe essersi verificato altre due volte nella regular season?
Lipsia, Lione, Benfica e Zenit. Porto, Schalke 04, Galatasaray e Lokomotiv Mosca. Sono solo alcuni dei gironi iniziali della Champions League sorteggiati nelle ultime stagioni e giudicati non all’altezza di ciò che il pubblico ricerca nella competizione, specialmente se in contrasto con quelli che definiamo “gruppi della morte“, composti da due o più grandi club. Non c’è dubbio: il format della massima competizione europea può certamente essere migliorato, ma non attraverso una via che diventi sempre meno inclusiva. Perché dopo 10 o 15 anni di Superlega, gli stessi tifosi sarebbero disposti ad agire in clandestinità pur di rivedere un Ajax o un’Atalanta stravolgere ogni pronostico.
Come ricordava il sociologo tedesco Detlev Claussen, d’altronde, l’Europa non è altro che «il prodotto delle partite di calcio in notturna degli anni Cinquanta e Sessanta […], un’Europa più grande di quanto consentisse la Guerra fredda». Un continente nato da quell’atto d’amore descritto da Jacques Goddot e ancora oggi, nonostante tutto, tenuto insieme da un elemento imprescindibile. Toglieteci tutto, ma non il mercoledì di coppa.