Il Covid-19 ha segnato profondamente la stagione 2019/2020, costringendo varie leghe professionistiche ad interrompere l’annata sportiva in concomitanza del primo lockdown, salvo poi ripartire in estate. In particolare, la NBA è stata la Lega ad indicare la strada da seguire. Una rotta, forse, leggermente utopica per il resto degli sport. Sta di fatto che il basket americano è ripartito, dopo tre mesi di inattività, all’interno della “bolla” costruita presso il Walt Disney World Resort di Orlando. Ovviamente, lo stop ha fatto slittare il finale di stagione ben più il là di giugno, periodo nel quale solitamente si svolgono le Finals. I Los Angeles Lakers si sono laureati campioni la sera dell’11 ottobre 2020, mentre la partenza della nuova stagione è stata poi fissata per la notte di Natale. Nei due mesi che separano queste date sono accadute una serie di cose che solitamente si svolgono in un lasso di tempo ben più ampio: le vacanze dei giocatori impegnati nella “bolla”, la notte del draft, la finestra di mercato per gli scambi e la ripresa degli allenamenti.
Che cos’è il draft?
Il draft è un evento organizzato annualmente dalla NBA, che permette alle 30 franchigie della Lega di scegliere i nuovi giocatori provenienti dai college americani o dai campionati esteri. Ogni anno vengono scelti 60 prospetti: 30 al primo giro e 30 al secondo, per un totale di due giocatori per franchigia. L’ordine di scelta delle squadre veniva calcolato sulla base della posizione di classifica della regular season dell’anno precedente, in maniera inversamente proporzionale: chi era arrivato primo sceglieva per ultimo, mentre chi era arrivato trentesimo sceglieva per primo.
Dal 2019, questo sistema è stato cambiato leggermente, con lo scopo di evitare che le squadre non in grado di lottare per un posto ai playoff perdessero volontariamente tutte le partite per avere la prima scelta al draft dell’anno successivo. L’introduzione della lottery ha fatto sì che la “prima scelta” non vada automaticamente all’ultima classificata della stagione precedente, ma venga assegnata tramite un’estrazione a mo’ di Superenalotto. Così, le ultime tre classificate hanno ugualmente il 14% di possibilità di ottenere la “prima scelta” e man mano che si risale il posizionamento in classifica diminuiscono anche le percentuali, fino ad arrivare allo 0,5% di probabilità della prima squadra rimasta fuori dai playoff della stagione appena conclusa. Chi, invece, è riuscito a strappare un biglietto per la post-season sceglierà sempre dalla posizione 15 alla 30.
La ratio di questo sistema – che va nella stessa direzione del salary cap – è quello di far sì che, tramite una buona programmazione e lungimiranza nelle scelte al draft, ogni squadra in pochi anni abbia la possibilità di costruire una squadra vincente.
Come il Covid-19 ha influenzato il draft 2020?
La serata di gala del draft è solitamente prevista al termine delle Finals. Ed anche il 2020 non avrebbe dovuto fare eccezioni, con la “notte delle scelte” inizialmente organizzata al Barclays Center di Brooklyn, a New York. L’avvento della pandemia, l’interruzione della stagione e la ripresa nella “bolla” di Orlando ad inizio luglio 2020, ha costretto ovviamente la NBA a rivedere i suoi piani. Dal 1975, questa è la prima volta che il draft non si è svolto a giugno. La Lega ha così deciso di organizzare la speciale kermesse annuale in videoconferenza. Il commissario NBA, Adam Silver, ed il suo vice, Mark Tatum, hanno condotto il draft dall’ESPN Headquarters di Bristol, nel Connecticut. Ovviamente, è stata la stessa ESPN a trasmettere l’evento in diretta nazionale.
Al fine di rendere ugualmente speciale la notte del draft, la Lega ha deciso di utilizzare la tecnologia per permettere ai futuri giocatori della Lega di godersi l’esperienza direttamente dalla propria residenza. Per questo motivo i 58 giovani invitati a partecipare hanno ricevuto dalla NBA una Draft Box, ovvero un armadietto contenente i cappellini delle 30 franchigie, in modo che, al momento della chiamata, il giocatore potesse indossare il NewEra della squadra che lo aveva scelto. Il kit, oltre ai cappelli, conteneva anche una serie di regali, come un altoparlante portatile, cuffie wireless ed un pallone da basket Spalding personalizzato. Inoltre, 19 giocatori (dei 58 invitati) hanno avuto un camion satellitare posto fuori della loro abitazione ed una telecamera posizionata nel soggiorno, mentre ai restanti 39 è stato recapitato un kit tecnologico di trasmissione, che includeva un iPhone, un tablet, una luce LED e dei cavi per i collegamenti, in modo che potessero collegarsi autonomamente con gli studi di ESPN.
Ovviamente, un ingente gruppo di persone ha avuto il compito di garantire che tutto funzionasse senza intoppi. E visto l’ottimo risultato è probabile che, anche per il Draft 2021, la NBA scelga questa strada.
Chi sono i migliori prospetti usciti dall’ultimo draft?
La classe del draft 2020 è stata considerata come una delle peggiori degli ultimi 30 anni, se non la peggiore. Nonostante ciò, le prime tre chiamate sono prospetti parecchio interessanti.
Il rookie più talentuoso è senza ombra di dubbio LaMelo Ball, il terzo dei fratelli Ball (Lonzo gioca ai New Orleans Pelicans, mentre LiAngelo ha firmato un contratto con i Detroit Pistons prima di essere tagliato appena 12 giorni dopo). Una valutazione a cui si è arrivati dopo i suoi primi due mesi in NBA. Infatti, prima che scendesse sul parquet americano, la percezione di LaMelo era stata fortemente influenzata dalle incessanti uscite polemiche del e sul padre LaVar Ball, alle quali si aggiunge il fatto che LaMelo non avesse mai calcato i parquet dei college americani, preferendo andare a fare esperienze da professionista in Lituania ed Australia. Non sorprende, dunque, che i Minnesota Timberwolves ed i Golden State Warriors abbiamo scelto – alla numero 1 e alla 2 – due giocatori dal profilo più tradizionale. Così, gli Charlotte Hornets si sono ritrovati con la possibilità di chiamare un giovane dal talento talmente cristallino da essere considerato un predestinato. Il rookie, durante i suoi primi 65 giorni nella Lega, ha dimostrato di avere una comprensione del gioco molto raffinata e di avere nel suo arsenale una creatività fuori dal comune, candidandosi prepotentemente al premio di Rookie of the Year.
I Golden State Warriors, con la chiamata numero 2, hanno puntato su James Wiseman, un centro di 216 centimetri. La scelta non sembrava delle più convincenti, visto che sul nativo del Tennessee gravitavano parecchi dubbi riguardo la sua capacità di leggere il gioco alla stessa velocità di Steph Curry e Draymond Green. Questi primi due mesi abbondanti di partite, però, ci hanno restituito un’immagine del giovane classe 2001 molto diversa da quella che in tanti avevano immaginato prima della notte del draft. Il suo atletismo, l’apertura delle gambe, la sua capacità di raccogliere il pallone e di andare a schiacciare a canestro, per uno che è alto ben oltre i due metri (è sempre bene ricordarlo), ha un solo eguale nella Lega: Giannīs Antetokounmpo. Il greco, però, al suo ingresso nella NBA non era nemmeno lontanamente paragonabile a Wiseman, che ha avuto fin da subito anche buone percentuali nel tiro da 3 punti. Non che questo significhi che il rookie degli Warriors diventerà forte come The Greek Freak, ma è probabile che, attraverso il duro lavoro, possa diventare dominante nel pitturato.
La prima scelta assoluta del 2020 è stata Anthony Edwards, chiamato dai Minnesota Timberwolves. Delle prime tre chiamate a questo draft, la guardia tiratrice nativa di Atlanta è sicuramente quella che ha impressionato di meno in questi primi due mesi di partite. Le sue qualità non si possono certamente discutere, ma al momento, rispetto a Wiseman ed a LaMelo Ball, è quello che ha avuto un impatto minore sulla squadra con cui è sotto contratto. Edwards è una shooting guard di 1,96 metri per 100 kg, dotata di grande atletismo ed esplosività, alle quali si aggiunge anche una tecnica di tiro che gli permette di crearsi punti in isolamento e di esser efficace anche dopo aver subito un contatto in penetrazione. Certo, per il momento, i Wolves non sembrano in grado di lottare per un posto ai playoff, nonostante la presenza a roster di Karl-Anthony Towns e D’Angelo Russell. Una situazione che se da una parte può permettere ad Edwards di crescere senza troppe pressioni, dall’altra potrebbe relegarlo nei prossimi anni ad una delle peggiori scelte di Minnesota.
Una piccola gioia c’è stata anche per i tifosi Azzurri che, per la prima volta dalla scelta di Danilo Gallinari da parte dei New York Knicks, vede un italiano tra le chiamate del draft: è Niccolò Mannion (che già ha esordito con la maglia della Nazionale). Per il classe 2001 è arrivata la chiamata numero 48, esercitata dai Golden State Warriors. Certamente, per il giovane playmaker allenarsi con Steph Curry, e poterne rubare almeno qualche segreto, avrà un impatto positivo. Ed anche se al momento, è sceso a giocare in D-League (la lega di sviluppo della NBA), siamo certi che il suo futuro con la maglia dell’ItalBasket sarà roseo (anzi, Azzurro).
Quali sono state le trade di maggior interesse durante questa finestra di mercato?
La trade che ha caratterizzato la finestra di mercato del 2020, e che ha tenuto milioni di appassionati attaccati allo schermo di uno smartphone per avere aggiornamenti, è stata quella che a portato James Harden a lasciare gli Houston Rockets, per accasarsi ai Brooklyn Nets in compagnia di Kevin Durant e Kyrie Irving. Uno scambio che ha visto coinvolte, oltre a Houston e Brooklyn, anche i Cleveland Cavaliers e gli Indiana Pacers. Ma di questa trade specifica ne parleremo in una delle prossime risposte, viste l’importanza degli effetti che ha avuto sui rapporti di forza all’interno della Lega.
La seconda operazione di mercato per importanza – almeno a livello economico – è quella che ha visto coinvolti gli Houston Rockets ed i Washington Wizards, in uno scambio alla pari. John Wall è andato dalla capitale al Texas, mentre Russell Westbrook ha fatto il percorso inverso. E se Wall era fermo ai box per infortunio da ormai due stagioni, Westbrook sembra pagare la definizione di “accumulatore di statistiche” non in grado di alzare il livello della squadra fino alla vittoria. Al netto di due contratti praticamente uguali (intorno ai 130 milioni per tre anni), la trade è sembrata più che altro uno scambio di problemi tra due franchigie che, almeno per il 2021, sono molto lontane dall’essere competitive.
Un altro All-Star ad aver cambiato casacca nel corso della off-season 2020 è stato Chris Paul. Il playmaker 35enne, dopo una straordinaria stagione vissuta con gli Oklahoma City Thunder, si è accasato ai Phoenix Suns. Il suo compito sarà lo stesso avuto lo scorso anno in Oklahoma, dove ha portato ai playoff una squadra che ad inizio stagione sembrava destinata agli ultimi posti della Western Conference. La franchigia dell’Arizona ha scelto un veterano di carisma che possa fare da guida ad una squadra giovane, ma piena di talento che, dopo la serie di 8 vittorie e nessuna sconfitta ottenute nella “bolla” di Orlando, deve fare l’ultimo salto di qualità per diventare competitiva. Paul è certamente l’uomo giusto per guidare Devin Booker e DeAndre Ayton ai playoff 2021.
La rifondazione che la i Thunder mettendo in atto – con lo scopo di raccogliere quante più scelte possibili ai draft dei prossimi anni e costruire una squadra in grado di puntare al titolo – ha portato Dennis Schroeder lontano dall’Oklahoma. Destinazione: Los Angeles Lakers. La squadra di LeBron James e Anthony Davis aggiunge così un playmaker di qualità ad un roster già ricolmo di talento.
Infine, i Milwaukee Bucks. La franchigia del Wisconsin, infatti, dopo la cocente eliminazione per mano dei Miami Heat agli ultimi playoff, nonostante la presenza in squadra di Giannīs Antetokounmpo (MVP e Defensive Player of the Year 2020), necessitava la presenza di un giocatore in grado di costruire punti direttamente dal paleggio e che togliesse almeno un po’ delle responsabilità che gravitano sulle spalle del greco. La scelta è ricaduta su Jrue Holiday, in arrivo dai New Orleans Pelicans, da molti considerato come il miglior giocatore two-way (forte in attacco quanto in difesa) disponibile sul mercato. L’obiettivo dei Bucks era quello d’innalzare il livello di competitività della squadra, dimostrando ad Antetokounmpo che la franchigia vuole vincere quanto lui.
Come sono cambiati i rapporti di forza tra le squadre NBA?
Le due principali favorite alla vittoria finale sono sicuramente i Los Angeles Lakers e i Brooklyn Nets. I gialloviola della California sono i campioni in carica ed a LeBron James e Anthony Davis sono stati aggiunti il Schroeder, Harrell e Marc Gasol: i primi due permettono di alzare i punti nelle mani della second-unit, mentre il terzo è in grado di fornire un playmaking secondario di altissimo livello. La franchigia meno famosa di New York, invece, è riuscita a mettere insieme dei Big-Three da favola, con James Harden, Kyrie Irving e Kevin Durant (finalmente rientrato dall’infortunio di due stagioni fa nelle Finals vinte dai Toronto Raptors).
Sul secondo gradino ci sono tre squadre. I Los Angeles Clippers, che rispetto allo scorso anno si sono leggermente indeboliti, vista la partenza di Harrell (Sesto Uomo dell’Anno 2020), andato ai cugini dei Lakers. In più, le frizioni all’interno dello spogliatoio della scorsa stagione, per il trattamento speciale nei confronti delle due superstar (Paul George e Kawhi Leonard), potrebbe aver lasciato degli strascichi. I Milwaukee Bucks, che sono riusciti a convincere Giannīs Antetokounmpo a firmare l’estensione contrattuale al massimo salariale (228 milioni in 5 anni), grazie all’aggiunta di un pezzo pregiato nel roster: il già citato Jrue Holiday. Un “terzo violino” in grado di garantire un’ulteriore opzione offensiva, aumentando così la possibilità dei Bucks di arrivare al titolo. Infine, i Philadelphia 76ers, che hanno rivoluzionato il supporting cast attorno a Ben Simmons, Tobias Harris e Joel Embid, che sta giocando una prima parte di stagione a livelli da MVP (30 punti di media), assicurandosi due dei più pericolosi tiratori dal perimetro dell’intera Lega: Danny Green (3 titoli NBA) e Seth Curry (miglior tiratore da 3 punti della scorsa stagione NBA). Ma soprattutto, la franchigia della Pennsylvania ha cambiato a livello dirigenziale, ingaggiando Daryl Morey (ex-General Manager degli Houston Rockets) come President of Basketball Operations e Doc Rivers (ex-coach dei Clippers e campione NBA con i Boston Celtics nel 2008) come allenatore.
Il gruppo delle possibili outsiders per il titolo può essere, invece, diviso in due sottogruppi, a seconda del punto in cui si trovano nel loro percorso di crescita. Il primo terzetto è composto dalle franchigie che sembrano leggermente più attrezzate per arrivare in fondo. Iniziamo dai Miami Heat, vice-campioni 2020. Il team della Florida non ha toccato nulla in un roster giovane e di talento, guidato dal veterano Jimmy Butler, e che, solamente lo scorso anno, è riuscito ad arrivare alle Finals, grazie ad una chimica di squadra molto affiatata. Il grande ostacolo di questa stagione sarà quello di riuscire a confermare quanto di buono fatto lo scorso anno: per migliorarsi, però, sarà necessario vincere. Ci sono poi i Denver Nuggets di Jamal Murray e di Nikola Jokić, che in questa prima parte di stagione sta viaggiando ad oltre 26 punti, 11 rimbalzi e 8 assist di media, ovvero un rendimento da MVP. Al momento le cifre di Jokić possono essere lette in due modi: da una parte il rendimento del centro serbo è sicuramente il migliore della sua carriera, dall’altra balza all’occhio che, nonostante tale bottino, i Nuggets al momento non abbiano un record in grado di portarli nelle zone alte della Western Conference. Infine, ci sono anche i Boston Celtics. La franchigia del Massachusetts è quella che ha sicuramente cambiato di meno, avendo in Jaylen Brown e Jason Tatum la sue stelle per gli anni a venire. La partenza di Gordon Hayward (in direzione Charlotte Hornets) non ha lasciato un vuoto incolmabile, visto che il nativo dell’Indiana – pur considerando i due infortuni subiti – non è mai riuscito a dare un apporto significativo al gioco di squadra.
A capo del secondo terzetto ci sono i Portland Trail Blazers, la squadra di Dame Lillard, CJ McCollum e Carmelo Anthony. La franchigia dell’Oregon, che fino a qualche anno fa sembrava destinata a diventare una delle possibili contender, sembra aver avuto una battuta d’arresto. La crescita della squadra, al netto della miglior coppia di guardie dell’intera Lega, sembra essersi fermata. Il talento delle sue star non è in discussione, ma anche quest’anno la domanda è sempre la stessa: avranno le capacità per arrivare in fondo? Ci sono poi i Toronto Raptors. La franchigia canadese, dopo aver vinto il titolo nel 2019 ed aver dovuto salutare Kawhi Leonard, era partita nella scorsa stagione comunque come possibile contender, anche considerando la crescita esponenziale di Pascal Siakam e Fred VanVleet. Aspettative, per altro rispettate nella prima parte di stagione, salvo venire eliminati dai Celtics nelle Semifinali di Conference. Complice anche la partenza di Marc Gasol, i Raptors sembrano aver fatto un passo indietro nelle gerarchie delle possibili aspiranti al titolo. Infine parliamo degli Utah Jazz, la franchigia che ad inizio stagione era sicuramente la meno quotata all’interno di questo gruppetto. Sicuramente si pensava che le ruggini tra le due stelle della squadra, Donovan Mitchell e Rudy Gobert, causate dai comportamenti di quest’ultimo durante la prima fase del Covid-19, avrebbe avuto delle ripercussioni anche in questo 2021. Il centro francese, noncurante del virus che iniziava a circolare negli USA, aveva toccato ripetutamente i microfoni durante una conferenza stampa, ironizzando sulla pandemia in corso. Gobert era poi risultato positivo, contagiando anche il compagno Mitchell. Nonostante i due non si siano parlati per mesi (anche all’interno della “bolla” di Orlando), ora sembra tutto superato visto che i Jazz si trovano in testa alla Western Conference con il miglior record della Lega, davanti anche alle ben più quotate franchigie di Los Angeles.
Tra le squadre che, invece, hanno ottime possibilità di qualificarsi per i Playoff, ma che dovranno sgomitare e lottare per andare avanti, ci sono sicuramente i Phoenix Suns. La franchigia dell’Arizona è stata la migliore all’interno della “bolla” di Orlando e l’acquisto di Chris Paul garantisce un innesto d’esperienza da non sottovalutare. Anche perché Devin Booker e DeAndre Ayton sono due giovani di talento dalle potenzialità straordinarie e che ormai non sono più di “primo pelo” nella Lega. Nel 2020 sono rimasti fuori dai Playoff per un soffio, quest’anno qualificarsi è un obbligo. I Dallas Mavericks sono stati una delle squadre più entusiasmanti da ammirare la scorsa stagione. Il merito, probabilmente, è tutto i Luka Doncic. “Magic Luka“, come lo chiamano oltreoceano, è già il presente ed il futuro della NBA. Lo scorso anno sono andati ai Playoff, uscendo sconfitti contro i Clippers al primo turno. Quest’anno sarà necessario fare un’ulteriore step in avanti per una squadra che, già da oggi, sembra destinata a vincere nei prossimi anni. I Golden State Warriors, che non sono più la squadra che qualche anno fa dominava l’inter Lega. La squadra di Steph Curry e Draymond Green ha dovuto rinunciare anche quest’anno a Klay Thompson (rottura del tendine d’achille, dopo aver saltato tutta la stagione 2020 per la rottura del crociato). L’assenza di uno degli Splash Brothers ridimensiona sicuramente le ambizioni della franchigia di San Francisco. La vera incognita sarà se coach Steve Kerr saprà adeguare i sui schemi ed il suo gioco cerebrale ad una squadra che dispone di meno talento. Ci sono poi i New Orleans Pelicans. Brandon Ingram sembra aver fatto il definitivo salto di qualità, mentre si attende alla sua prima vera stagione Zion Williamson (nel 2020, anche a causa di un infortunio prima dell’inizio della stagione, è stato usato con il contagocce), il rookie più atteso dai tempi di The Chosen One, LeBron James. Infine, è giusto citare anche gli Atlanta Hawks, la squadra che, rispetto al punto di partenza, sembra essere quella che si è rafforzata di più. A fianco del fenomenale folletto Trae Young e di John Collins sono stati aggiunti giocatori di talento, d’esperienza e funzionali: si tratta di Danilo Gallinari, Bogdan Bogdanovic e Rajon Rondo. Young, nonostante in molti lo diano già come futuro Hall of Famer, è solo alla terza stagione NBA, ma tutto sembra pronto per i primi Playoff della sua breve carriera.
Nelle retrovie della Lega c’è da segnalare il cambio di rotta dei New York Knicks, che da molti anni navigano nelle parti meno nobili della classifica. Certamente non si qualificheranno alla off-season, ma l’avvento del nuovo allenatore, Tom Thibodeau, ha almeno invertito la tendenza della franchigia della Grande Mela: i Knicks hanno abbandonato la “cultura della sconfitta” per cercare di ottenere una miglior scelta al draft. Quest’anno l’obiettivo è vincere quante più partite possibile, perché – come ha detto Thibodeau nella sua conferenza di presentazione – è necessario abbandonare l’abitudine al perdere, per costruire una mentalità vincente che si può ottenere solamente lasciando tutto sul parquet ogni sera.
Per James Harden la sua esperienza agli Houston Rockets era giunta al capolinea. Nonostante un contratto che lo legava alla squadra texana fino al 2022, il Barba ha puntato i piedi ed è riuscito ad andare ai Brooklyn Nets, come da sua esplicita richiesta. Cosa ci dice questa trade?
Solamente tre estati fa, Harden aveva firmato una faraonica estensione contrattuale da 170 milioni di dollari, fino al termine della stagione 2021/22, a cui si deve aggiungere una player option da 47 milioni per l’anno successivo. Una situazione che non avrebbe dovuto permettere al due volte MVP della Lega di fare la voce grossa durante la finestra di mercato. Ultimamente, però, è diventata una pratica comune all’interno della Lega che le superstar facciano pressione sulla propria franchigia per essere ceduti, nonostante a volte abbiano ancora da onorare un contratto a molti zeri, ma probabilmente nessuno ha mai forzato così tanto la mano come James Harden. Certo, il Barba è uno dei talenti più cristallini e polarizzanti dell’intera NBA, ma la sua presa di posizione è certamente sintomatica di come le stelle stiano mettendo a rischio il player empowerment della NBA.
Molto è cambiato negli ultimi anni: sono finiti i tempi in cui le franchigie potevano disporre a piacere della forza lavoro che avevano sotto contratto. La scelta della Lega è stata quella di dare sempre maggior potere e visibilità ai propri atleti. Se da una parte questa scelta ha avuto molti effetti positivi (come l’impegno sociale durante la “bolla” di Orlando), il rovescio della medaglia è che sono cresciute a dismisura le possibilità di forzare la mano con le squadre. Certo, sono molti pochi i giocatori che possono permettersi le libertà di Harden, mentre l’intera NBA beneficia degli effetti del player empowerment.
Una questione che pone parecchi interrogativi ad Adam Silver ed ai vertici della Lega, e che, se non verrà adeguatamente normata o indirizzata, potrebbe indurre i giocatori di maggior talento a scappare dai mercati più piccoli per accasarsi nelle El Dorado sulle coste. Infatti, come nel caso di Harden, se nemmeno i contratti a lunga scadenza ed al massimo salariale fossero più un incentivo per trattenere le superstar nei mercati cosiddetti “minori”, allora si incrinerebbe il principio di uguaglianza tra le franchigie ed il senso stesso del Salary Cap. Un serio problema per l’intera NBA, che di certo non si riduce alle semplici azioni di Harden, ma che da essere viene messo in evidenza.