«Forse, mi dico, sarebbe sufficiente avere più occasioni per conoscersi e raccontarsi, e trovare un vocabolario comune a partire dalla definizione di “libertà”. Io con il mio velo mi sento libera, davvero, ma non tutti ci credono».
Queste parole di Sumaya Abdel Qader, tratte dal suo ultimo libro Quello che abbiamo in testa, ricordano, quando si parla del velo islamico, l’importanza di dare spazio all’ascolto a chi lo indossa ogni giorno. Quello di Abdel Qader, insieme a Sotto il velo di Takoua Ben Mohamed, sono due testi utili a comprendere cosa significhi indossare il hijab oggi in Italia.
Il volume di Ben Mohamed, fumettista nata in Tunisia e cresciuta a Roma, è una graphic novel pubblicata da Becco Giallo nel 2016. Con una serie di vignette umoristiche, l’autrice racconta la sua vita con il velo per le strade della capitale. Dalla gestione dei capelli sotto il hijab ai commenti indesiderati di chi ritiene che si vesta in modo troppo o non abbastanza modesto. Viene passato in rassegna ogni aspetto della sua quotidianità. Il personaggio caricaturale ricorda le domande più bizzarre e frequenti che le sono state poste – «Ma, ce l’hai i capelli? Ma, dormi con il velo?» – e che mettono in luce quanto poco le persone non musulmane sappiano dell’Islam.
Poi ci sono le disavventure in spiaggia con il burkini, dalla parrucchiera e nei negozi di biancheria intima. Ogni volta la protagonista attira su di sé gli sguardi indiscreti di chi non si risparmia i commenti. Ben Mohamed, nonostante il tono umoristico delle sue strisce, ritrae con schiettezza i pregiudizi subiti. Gli sguardi curiosi e insistenti spesso si trasformano in critiche sgradevoli da parte di chi crede che coprirsi i capelli con il hijab sia sempre una costrizione. D’altra parte, anche alla stessa protagonista capita di fraintendere le occhiate altrui e di giudicare l’abbigliamento scelto da altre donne. Inserire questa doppia prospettiva rende Sotto il velo un racconto per immagini molto onesto e mostra come gli stereotipi siano più radicalizzati di quanto si possa pensare.
In un paese in cui il 4.8% della popolazione (2,870,000 persone) è musulmano e in cui il 40% degli abitanti ritiene l’Islam e la cultura italiana non conciliabili, provare a mettersi nei panni altrui per osservare la vita sotto il velo può essere un’operazione di grande rilievo. In uno stato in cui è difficile ottenere un cimitero islamico o una moschea riconosciuta, prestare attenzione alle donne che indossano il velo, segno tangibile ed evidente della loro identità religiosa, è una chiave per rivedere i propri comportamenti ed evitare le micro o macro-aggressioni.
Le situazioni raccontate da Ben Mohamed mostrano che indossare il velo in un paese come l’Italia non è facile. Nelle vignette più lucide di questo volume, inoltre, riflette su quale sia l’identità di chi indossa il hijab in un paese occidentale:
Il secondo libro scelto per parlare del hijab è Quello che abbiamo in testa di Sumaya Abdel Qader, sociologa e consigliera comunale a Milano, pubblicato nel 2019 da Mondadori. Il velo è presente con naturalezza fin dalle prime pagine e ne vengono raccontati anche gli aspetti più intimi nella loro ordinarietà: la scelta del tessuto, del colore, il modo in cui lo si avvolge attorno al capo. «Scegliere il velo non è un’operazione semplice» scrive l’autrice, «e in realtà, com’è evidente, non si tratta mai di una mera questione di stile. La verità è che per lo più ti ritrovi a pensare alla reazione delle persone».
Al centro del romanzo c’è Horra, una donna musulmana italiana, di origini giordane, che vive a Milano. La città metropolitana sempre in movimento si popola di uomini e donne – alcune con il velo, altre senza – che frequentano il centro islamico. Non sarebbe corretto, infatti, parlare di moschea perché non c’è nessuna moschea riconosciuta a Milano. In tutta Italia ce ne sono solo due, le altre sono ricavate adattando gli spazio dei centri culturali.
Vengono messi in luce gli aspetti più quotidiani della vita di Horra: dalla sua gestione della preghiera durante la giornata al confronto con le amiche, dall’hate speech e le shitstorm che riceve online e offline al velo come scelta femminista e, soprattutto, libera. L’autrice, inoltre, affronta e mostra l’inconsistenza di tanti stereotipi legati a una conoscenza approssimativa dell’Islam: la sottomissione femminile, i matrimoni combinati e l’infibulazione. Uno a uno, tutti i preconcetti diffusi vengono portati sulla scena e, con semplicità, spiegati e abbattuti.
Non tutti i personaggi poi condividono la stessa posizione ideologica. C’è la donna bacchettona che in moschea sostiene la necessità di vestirsi con modestia per non provocare gli uomini, il tuttofare del centro islamico convinto che le donne non portino mai bene, la donna che procura alla figlia adottiva un matrimonio combinato. Abdel Qader non delinea una comunità ideale, ma molto reale e concreta. È un racconto sincero popolato da personaggi bigotti e progressisti, di mente aperta o ancorati ai propri pregiudizi, esattamente come in ogni comunità umana e religiosa.
Emerge infine una grande partecipazione di Horra alla propria spiritualità: discute con l’imam e altre persone musulmane, riflette sui principi religiosi e li mette in discussione. Non ha tutte le risposte alle sue domande e a quelle delle figlie. Horra contrasta lo stereotipo della donna succube di un credo che viene accettato senza compromessi. Fa proprio il significato del velo e lo cala nel contesto della sua vita, tra gli sforzi di mediare la fede e la società in cui vive.
Oggi, in Italia, si parla molto di Islam – confondendone anche gli aspetti fondamentali – e poco di islamofobia. E a prendere parola è spesso chi non fa nemmeno parte della comunità musulmana. I libri di Takoua Ben Mohamed e Sumaya Abdel Qader, invece, offrono una prospettiva cui si è poco abituati: quella di chi indossa il velo come esercizio spirituale, atto di fede e identitario e, così facendo, si trova al centro di una dilagante paura del diverso. Ascoltare le storie nate dalla loro esperienza permette di avere una conoscenza meno superficiale dell’Islam e di rendersi conto che – a differenza di ciò che crede quel 40% della popolazione italiana – non è inconciliabile con la vita del nostro paese. Ben Mohamed, Abdel Qader e i loro libri lo testimoniano.