È indubbio che il cinema abbia avuto un ruolo da protagonista nella costruzione dell’immaginario della Guerra fredda e del Muro di Berlino, contribuendo a creare miti e atmosfere, e a indirizzarne politicamente la visione. Un muro, due luoghi. Un muro, due strumenti: cinema e documentario. Vi proponiamo un breve sguardo sui due mondi, all’apparenza lontani nel contenuto e nello stile, eppure vicini nel loro intento: descrivere l’atmosfera di quel conflitto e veicolare un messaggio.
Uomini che vennero dal freddo – di Luigi Luca Borrelli
Il muro come un muro, senza giochi di parole né allusioni metaforiche. Quello che in La spia che venne dal freddo separa due mondi non coniugabili e nel farlo si prende la responsabilità dei suoi affanni e delle sue durezze. Da un romanzo di le Carré, un film durissimo che contribuì a rimettere sui binari “europei” un Richard Burton in gran forma, a metà anni Sessanta. Al volto ruvido del bel gallese si accompagnò la regia asciutta, come al suo solito, di Martin Ritt. Da un punto di vista più tecnico a stupire fu la penetrante e un po’ spettrale fotografia di Oswald Morris, che metteva in immagini un pessimismo cosmico tranciante. Un finale disperato dove il Muro di Berlino, già grande protagonista del film, diveniva l’elemento di sceneggiatura sovrastante, il macigno che si posava sopra ogni possibilità di chiudere la storia e la Storia con la serenità di un risvolto positivo.
Era un clima cinematografico che si opponeva con forza a un filone di spy story che il muro e la Guerra Fredda li avevano sì trattati, ma con il garbo e la sensibilità opposta. L’immancabile riferimento è alla saga di James Bond, lo 007 più noto del ‘900. Quello che combatteva contro la Spectre senza dimenticarsi che gl’inglesi stavano – più di chiunque altro – con gli americani, e dunque la Spectre come nemico andava bene, ma in fin dei conti andavano bene anche i russi. Octopussy – operazione piovra fu il film che maggiormente si occupò di mettere in mostra una certa Berlino, Muro incluso. A vestire i panni dell’Agente più famoso del mondo già era da tempo Roger Moore, nella sua sesta parte come 007.
A metà tra Bond e il pessimismo cosmico si insinuò la serie di Harry Palmer, tendente però più al secondo blocco, pur se con l’ironia un po’ tipica dei britannici. Il suo protagonista e mattatore fu infatti l’inglese Michael Caine, che con il personaggio si fece – se non divo – quantomeno volto noto nel panorama europeo: il primo episodio fu Ipcress, il terzo Il cervello da un miliardo di dollari, il secondo Funerale a Berlino, quello che appunto ruotò anche fisicamente attorno al muro.
Uno sguardo sul Muro – di Francesco Fiero
Dei bambini giocano allegri per strada a pallone. Poi, un calcio troppo forte scaraventa la palla al di là di un muro. Del Muro. La voce fuori campo commenta: «Abbiamo vissuto all’ombra del Muro per più di un anno. Divide in due il cuore di Berlino. Abbiamo imparato a conviverci. Ci rifiutiamo di pensare che sarà così per sempre».
Comincia così The Wall, cortometraggio del 1962 ad opera dell’USIA, lo United States Information Agency. Creato dall’amministrazione Eisenhower nel 1953 a scopo propagandistico, il compito dell’USIA era di diffondere l’idea dell’America come “Mondo Libero” al pubblico degli altri paesi. Non a caso, un corto come The Wall era pressoché sconosciuto al popolo americano, visto il divieto di trasmettere le produzioni negli States, per evitare che il governo federale facesse propaganda diretta ai suoi cittadini.
Prodotto sotto il governo Kennedy e diretto da Edward R. Murrow per la Hearst Metrotone News, The Wall riesce a offrire uno spaccato di Berlino ad appena un anno dalla costruzione del muro. Da questo punto di vista, al netto degli scopi propagandistici e di un’accentuata propensione alla drammatizzazione – che già emerge sin dalla scena della partita a pallone – è un cortometraggio che per le immagini proposte mantiene oggi un forte valore testimoniale e documentario. Un lavoro di montaggio e integrazione di diverse fonti – prese da cinegiornali americani e tedeschi – che Murrow ha sapientemente reso coese, aiutandosi con la voce fuori campo del narratore, sorta di testimone dei fatti accaduti. È indubbiamente un’opera che, dati i suoi fini, spinge sull’anticomunismo e sulla costruzione di un nemico: «Ci accecano con i riflessi degli specchi, ci lanciano il gas, provano di tutto per tenerci lontano» dice il narratore, come a sottolineare l’importanza delle riprese, scomode e pericolose. Il narratore, così, fa fronte comune con i berlinesi, parla per loro. Si insiste su un We e su un They, che vuole rimarcare la differenza, ed è in qualche modo un’anticipazione della famosa frase di Kennedy “Ich bin ein Berliner”.
È certo un corto che, come si diceva, mantiene oggi la sua importanza, e ci permette di assistere ai primi tentativi di fuga oltre il muro, fornendo preziose testimonianze visive. Colpiscono nella loro potenza le immagini della morte del diciottene Peter Fechter, in fuga dalla DDR mentre tentava di attraversare il Muro. Colpito al bacino, Fechter rimase in agonia senza che intervenissero soccorsi. Una volta morto, venne trasportato e portato via. Il breve docu-film si chiude su queste note, sulla commemorazione di Fechter e delle cinquanta vittime nel primo anno di vita del Muro. I tre minuti di silenzio all’anniversario dalla nascita del Muro, con l’intera Berlino Ovest ferma per strada, sono il ritratto di una divisione che era appena cominciata e che si sarebbe prolungata per altri ventisette anni.
The Wall rimane oggi una preziosa testimonianza visiva, una volta filtrata dagli intenti propagandistici. Documentario preferito di Robert Kennedy, al punto che decise di mostrarlo di nascosto ad alcuni artisti sovietici in visita – non altrettanto entusiasti dell’opera – The Wall apre e chiude il suo racconto con figure di bambini. Testimoni “inconsapevoli” che diventeranno i fautori di quella caduta, ancora lontana, del novembre 1989.