«Le lasagne sono nel forno. Mi raccomando, non lasciarlo tutto il pomeriggio davanti ai cartoni». Rapido cenno d’intesa, tra di noi.
«Sii, non ti preoccupaare». Parole allungate, da attore consumato che maschera la trepidazione con la noia.
«Ricordati il pane!». Esagera lui, la spara.
«Cosa te ne fai del pane, che avete le lasagne!»
«Ah già, è vero». Adesso abbassa i toni
«Va beh, io esco…». Interdetta, forse più basita, probabilmente ha capito tutto.
Porta chiusa, chiave girata e ora le mani sfregano, i cenni diventano ghigni, euforici: via libera!
Le prime ore del sabato sono universalmente note come le più liete della settimana. Qualcuno studiato azzarderebbe il termine “serendipità”, a casa mia il sabato è sempre voluto dire una cosa: “Dribbling”. Quando l’assolo di basso di One of these days squarciava il velo del televisore, significava una cosa soltanto: l’inizio del nostro sabato sportivo. Qualche cartone mio padre me lo concedeva: le lasagne nel forno ci mettono una vita e io a lui concedevo un po’ di pennica sul divano, senza rompere le palle. Come avrei potuto? Il mix Looney Tunes-sport in chiaro anestetizzerebbe un cavallo, figurarsi un bambino a fine anni ’90.
A cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio ce la siamo goduta. Il calcio dominava incontrastato, ci mancherebbe, ma il suo monopolio non era monocolore. Era possibile godersi altri sport di squadra che davano soddisfazioni, eccome. C’era la pallavolo che viveva la stagione della maturità della generazione dei fenomeni. Non c’era più Velasco in panchina ma gente come Zorzi, Tofoli, Lorenzo Bernardi (eletto miglior giocatore del XX secolo), Sartoretti, Lucchetta, Giani, Gardini, Luca “Bazooka” Cantagalli e Samuele “il fenomeno” Papi. Gente a cui rimarrà il cruccio di non aver mai vinto un’Olimpiade, ma che ha fatto la storia del volley italiano. Senza dimenticarsi della ragazze di Marco Bonitta che in quegli iniziavano a scrivere la grande storia dell’Italvolley femminile con Elisa Togut, Sara Anzanello, Eleonora Lo Bianco. E poi, dai, alzi la mano chi non si era innamorato di Francesca Piccinini?
Difficilmente, però, i patiti di sport che hanno vissuto gli anni della scuole dell’obbligo prima della rivoluzione di Sky dimenticheranno i triangoli con le scritte gialle in campo che indicavano il punteggio della pallacanestro. Il periodo più glorioso della storia del basket italiano, un’epopea che tra club e nazionali si è potuta ampiamente gustare in chiaro. A quei tempi nel nostro campionato militavano alcuni dei migliori giocatori che poi dal continente avrebbero fatto il grande salto in NBA come Manu Ginobili, Predrag Danilović e Sasha Djordjevic. C’erano poi i vari Bodiroga, Sconochini e Kukoč. Tra Benetton Treviso e le due squadre di BasketCity, la Virtus Kinder e la Fortitudo Skipper, i nostri club hanno dettato legge in quegli anni.
Dello spettacolo del nostro campionato giovava anche la nazionale. Il periodo compreso tra il secondo posto Europeo in Spagna nel ’97 e la vittoria dei Giochi del Mediterraneo nel 2005 è stato il più vincente della storia di Italbasket che nel mezzo ha vinto un Europeo in Francia nel ’99 ed un argento olimpico nella leggendaria epopea di Atene 2004. In azzurro hanno giocato campioni come Carlton Meyers e Gregor Fučka e giocatori indimenticabili come Galanda, Bulleri, Marconato, Pittis, Gentile e Pozzecco. Atene 2004 sancisce lo spartiacque del rapporto tra basket italiano e televisione, un connubio naif ma importante, quasi formativo per l’immaginario dei millennials. Nella stagione successiva all’impresa ateniese nel palinsesto Sky entra a pieno regime la Serie A. È la stagione decisa dall’instant replay con la convalida del canestro sulla sirena di Ruben Douglas che assegna il titolo alla Fortitudo Bologna. Il mezzo televisivo e le pay-tv entrano a pieno titolo nella storia della pallacanestro italiana.
Sky ha sedotto e abbandonato la Serie A di basket: ormai da anni la regina delle tv a pagamento ha smesso di trasmettere il nostro campionato per concentrarsi sulla NBA. Negli ultimi anni si è compiuta una vera e propria rivoluzione nel sistema dei media che ha visto l’aumento a dismisura il numero delle piattaforme a disposizione e delle modalità di fruizione. Eppure questa balcanizzazione della trasmissione delle partite non sembra aver avvantaggiato il pubblico del basket: i bambini guardano solo quello americano e non conoscono quello italiano, i più grandi non sanno dove cazzo guardarlo.
Ad oggi, il campionato è iniziato da più di un mese, con la Virtus – che a Natale tornerà a giocare il derby di Bologna dopo 10 anni e i fallimenti di entrambe le squadre di Basketcity – in testa alla classifica con otto vittorie in altrettante partite. I bolognesi, insieme a Sassari e l’outsider Brescia, sembrano essere i principali candidati a cercare di interrompere il dominio di Milano sul campionato. Ma sono in pochi a conoscere le dinamiche interne al campionato italiano.
Abbiamo intervistato Andrea Lamperti, giornalista e fondatore di Around the Game – L’NBA al microscopio, per provare a chiarire il rapporto tra televisione e basket italiano, sullo sfondo della sempre maggiore richiesta di NBA da parte del pubblico nostrano.
Quanto pensi che sia importante vedere in televisione il basket?
Neanche a dirlo, è fondamentale. La base per qualsiasi riflessione sullo stato di salute di uno sport e di un movimento è l’entusiasmo che riesce generare e chiaramente la tv gioca un ruolo importante in questo. Anche perché rappresenta una spinta per avvicinare i più giovani a questo sport, che in Italia non è certo quello “maggiore”, anzi. Oltre alla trasmissione delle partite, però, un altro aspetto importante secondo me è la qualità del servizio. Fino a qualche anno fa Sky Sport offriva, oltre a qualche partita di Serie A nel weekend, anche approfondimenti, speciali dedicati e studio (con interviste) pre e post-partita. Come viene fatto ora con l’NBA, insomma, e tutto ciò serve per diffondere quella “cultura cestistica” e quell’interesse per il basket italiano che stanno venendo a mancare.
Un tempo era possibile vederlo in Rai, poi sulle paytv. Adesso?
A parte una o due partite a settimana trasmesse su Rai Sport e su Eurosport 2, attualmente a livello nazionale è possibile vedere le partite di Serie A solo su Eurosport Player, un servizio di streaming online che non fa neanche parte del pacchetto Dazn. Il tutto, come detto prima, praticamente senza un’offerta al pubblico che vada oltre la semplice trasmissione delle partite. È chiaro che così le possibilità del basket italiano di raggiungere il “grande pubblico” e di catturare il suo interesse sono molto limitate. Anzi la mia sensazione è che si rivolga solamente ad appassionati e tifosi che già lo seguono.
Il basket è forse l’unico caso nello sport italiano dove un campionato estero ha più seguito di quello nazionale?
Che il basket italiano sia in crisi è un dato di fatto, ma penso che il maggior appeal dell’NBA sia abbastanza inevitabile. E comprensibile. Nel calcio, per esempio, il campionato italiano è stato per tanti anni ai vertici mondiali ma anche oggi, sebbene magari non sia in primissima fila, rimane tra i più competitivi. Lo stesso non si può dire del basket italiano che, dopo anni – anzi decenni – con una grande tradizione in campo internazionale, oggi purtroppo ha un livello chiaramente inferiore rispetto ad altri campionati continentali. Figurarsi rispetto all’NBA, che è davvero “la crème de la crème de la crème” del basket sotto ogni punto di vista e che per gli appassionati di tutto il mondo è sempre più semplice seguire. Non solo per l’ampia copertura di Sky Sport (che dall’anno scorso, tra l’altro, ha un canale interamente dedicato): basta un abbonamento a NBA League Pass per avere accesso illimitato a tutte le partite, in diretta o in replica, da qualsiasi dispositivo. E si giocano ogni giorno tra le 2 e le 13 partite quindi anche i più “affamati”, come me, hanno modo di saziarsi e di abituare bene il proprio palato, perché una qualsiasi partita di NBA Playoffs garantisce un livello tecnico e atletico che nessun’altra lega può avvicinare. Infine, l’NBA è un campionato sempre più internazionale: quest’anno sono ben 108 i giocatori non-statunitensi a giocarci, mentre vent’anni fa erano appena 22. Anche questo aiuta a diventare sempre più “global”, parola che tanto piace al commissioner Adam Silver.
La carenza di appeal del nostro campionato ha inciso sulla nazionale?
Tanti fattori possono incidere sullo stato di salute dell’intero movimento e quindi, di riflesso, anche sulla sua Nazionale che negli ultimi anni ha raggiunto indubbiamente risultati inferiori alle proprie potenzialità e aspettative. Capacità di attrarre investimenti e giocatori importanti, pazienza e competenze per programmare sul lungo periodo («che in Italia non esistono più» secondo uno dei nostri migliori allenatori, Andrea Trinchieri che da anni ha preferito allenare altrove in Europa), copertura mediatica del campionato e coinvolgimento del pubblico sono alcuni di quei fattori – la cui influenza è reciproca – che hanno impatto sullo stato di salute delle società. E dunque, a cascata, sulla competitività del campionato, sulle leghe minori e sul lavoro a livello giovanile. A lungo termine, se tutti questi aspetti hanno un trend negativo, il serbatoio della Nazionale rischia di rimanere con poca benzina.
L’attuale mancanza ad alto livello di giovani promesse italiane, fatta eccezione per il 18enne Niccolò Mannion (la cui formazione è però avvenuta interamente in Arizona), è indubbiamente un campanello d’allarme. I nostri tre italiani in NBA (Belinelli, Gallinari e Melli), nonché pilastri della Nazionale, hanno rispettivamente 33, 31 e 28 anni (in linea con la selezione azzurra che all’ultimo Mondiale aveva un’età media di poco inferiore ai 30); e per ora non vedo molti candidati per seguire le loro orme Oltreoceano. Anzi. Il problema però non è che i nostri top player vadano a giocare nelle migliori squadre del mondo e quindi negli Stati uniti (a patto che siano disponibili per raggiungere la Nazionale in estate, ma questo è un altro discorso); il problema è la capacità di sviluppare il talento nelle giovanili, dargli tempo e spazio per esprimersi nelle leghe minori, e infine farlo maturare definitivamente in Serie A e Serie A2. Ricordo le parole a tal proposito di coach Matteo Boniciolli, secondo cui la vera «piaga» del nostro movimento è l’eccessiva presenza di giocatori stranieri nelle leghe minori (sia chiaro, non è affatto razzismo il suo!), che ostacola lo sviluppo dei giovani nazionali. È un discorso molto complesso, onestamente.
Eppure, abbiamo iniziato a mandare italiani in NBA proprio in questi anni di magra del nostro campionato. Cosa te ne pare?
Come detto, la Lega è sempre più international, quindi non è un fenomeno che riguarda solo il basket italiano. Anzi, basti pensare che soltanto nell’NBA Draft di tre anni fa sono entrati nella Lega 6 giocatori francesi (su 60 totali, record) e che ce ne sono attualmente 16 canadesi, 9 australiani, 8 francesi, 7 croati, 6 serbi, e così via. In tutto questo ci siamo anche noi. Gallinari e Belinelli sono sbocciati in Italia, rispettivamente a Milano e Bologna, prima di “farsi le ossa” nei primi anni oltreoceano e diventare giocatori affermati negli Usa. Per il primo parla il suo contratto (quasi 23 milioni di dollari all’anno), per il secondo il titolo vinto con gli Spurs nel 2014, che sentiamo come “nostro” un po’ tutti. Melli, invece, dopo essere emerso con l’Olimpia Milano, ha fatto il vero salto di qualità giocando in Germania e in Turchia. Spero che i prossimi giovani più promettenti, prima del “grande salto”, seguano un percorso più simile a quello di Gallo e Beli (e, prima di loro, del “Mago” Bargnani): sarebbe un segnale positivo per il nostro campionato.