Mircea Lucescu è diventato recentemente l’allenatore più anziano della storia della Champions League. Giramondo del pallone da quando girare il mondo gli è stato permesso (da calciatore della Dinamo Bucarest il Partito Comunista gli impedì di lasciare la terra natale), ha allenato in Italia, Turchia, Russia e Ucraina oltre, ovviamente, alla sua Romania. Ha conosciuto la Turchia di Erdogan e la Romania di Ceaușescu; l’Italia della grandeur calcistica degli anni ’90 e una guerra, non ancora terminata, nel Donbass. A settantacinque anni non ha ancora smesso di divertirsi guardando il rotolare di un pallone da calcio.

Per una volta, forse la prima, ha voluto essere tranchant, lapidario, epigrafico. Dopo soli quattro giorni dal suo insediamento sulla panchina della Dinamo Kiev, Mircea Lucescu ha rassegnato le dimissioni. Un po’ come la consistente scoperta di Jep Gambardella il giorno dopo aver compiuto 65 anni, anche Mircea, nell’anno dei suoi 75, probabilmente si è reso conto che non può più perdere tempo a fare cose che proprio non gli va di fare. E a nessuna persona al mondo, nemmeno a lui, piacerebbe trovarsi di fronte migliaia di ultras inferociti.

«Ho capito che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare»
Jep Gambardella (Toni Servillo) ne La grande bellezza, di P. Sorrentino.

Il bersaglio dei tifosi della Dinamo non era soltanto Mircea, ma anche il suo datore di lavoro, il presidente del club di Kiev che ha deciso di ingaggiare uno degli ultimi grandi santoni del calcio europeo. Il motivo della rabbia è molto semplice e per comprenderlo è doveroso fare un viaggio indietro nel tempo. Infatti dal 2004 al 2016, per dodici lunghi anni, Mircea Lucescu ha guidato lo Shakhtar Donetsk, rendendo la squadra del Donbass non soltanto il club leader del calcio ucraino, ma anche una autentica mina vagante nelle coppe europee. A livello calcistico la rivalità tra Shakhtar e Dinamo non può certamente definirsi storica. Infatti, è soltanto dalla fine degli anni ’90 e l’inizio del XXI secolo che la sfida ha cominciato ad essere sentita, inizialmente per sole ragioni calcistiche, dato che le due squadre hanno cominciato a contendersi il campionato ucraino, nato dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Questioni calcistiche, direbbe qualcuno. Tutto vero ma, anche in questo caso, non è mai solo una questione di calcio, specialmente in quella regione del mondo (il Donbass e l’Ucraina) dove, negli ultimi anni, lo sport più popolare del globo è stato messo da parte ed ha recitato un ruolo secondario in una sezione del planisfero che è tutt’ora, ufficialmente, in uno stato di guerra. Dal 2014 lo Shakhtar ha abbandonato la propria casa (la meravigliosa Donbass Arena), per trasferirsi prima a Leopoli, poi a Charkiv e, in questo funesto 2020, proprio a Kiev (dove il club già disputava le partite delle coppe europee). Ed a tal proposito è doveroso sottolineare uno striscione in alfabeto cirillico apparso nello stadio della capitale durante il match di Champions League tra la squadra di Donetsk e il Lione, disputato nel dicembre 2018: “Shakhtar: non siete i benvenuti qui.” Discorso analogo, ovviamente, per Mircea Lucescu.

La contestazione dei tifosi della Dinamo Kiev. – © Twitter

Il più anziano allenatore della storia della Champions League viene al mondo il 29 luglio del 1945 a Bucarest, in un’epoca storica non particolarmente tranquilla. La sua stessa Romania, in quegli anni, non fa eccezione. Bucarest è in mano a Re Michele I, il quale, solamente un anno prima, è riuscito a rovesciare la dittatura di Ion Antonescu, facendo transitare, con un colpo di coda in zona Cesarini, la nazione rumena dalla parte degli Alleati. La situazione nel paese resta tesa e la conferenza di Jalta assegna la Romania alla sfera di influenza sovietica, facendolo diventare a tutti gli effetti un paese occupato militarmente. Dopo la fine del conflitto mondiale, la Romania di Michele I resta, per un paio d’anni, l’unico paese del blocco orientale ad ordinamento monarchico, ma dura poco: il 30 dicembre del 1947 il re abdica e al suo posto viene istituita la Repubblica Popolare Romena.

Il giovane Mircea cresce in un paese comunista e riguardo alla sua infanzia, effettivamente, non si hanno grandi notizie. Ma in quanto uomo del ‘900, noi comuni mortali, a posteriori, riusciamo a rileggere la storia di Lucescu attraverso alcuni fatti salienti. A metà degli anni ’60 questo giovane attaccante fa il suo esordio nel calcio rumeno con la maglia della Dinamo Bucarest, che diventerà per oltre un decennio la sua seconda pelle. Ed è proprio nel 1965 che in Romania esordisce un altro personaggio destinato a segnare un’epoca, ma non in senso calcistico (anche se, come tutti i grandi leader novecenteschi, seppe riconoscere nel calcio un’importanza straordinaria in termini propagandistici). A seguito della morte di Gheorgiu-Dej, Nicolae Ceaușescu diventa inizialmente il segretario del Partito Rumeno dei Lavoratori; ma il destino e la Storia hanno in serbo qualcosa di più grande per uno dei personaggi più controversi del ‘900.

Uno dei passaggi cruciali della storia della Romania moderna. L’esecuzione di Nicolae Ceaușescu avviene il giorno di Natale del 1989. I report rumeni si perdono l’esatto momento della fucilazione, in un video che viene regolarmente mandato in onda, lo stesso giorno, dalla televisione nazionale. – Fonte: Pinterest

Sono gli anni in cui Bucarest ribolle di passione per la versione rumena di un grande classico dell’Europa dell’Est (per un altro esempio chiedere a Belgrado). Il derby eterno, nell’unica lingua latina parlata in quella fetta d’Europa, diventa il Marele derby e vede di fronte la Steaua e la Dinamo. In estrema sintesi: la prima è considerata la squadra dell’esercito, il cui nome originale è per l’appunto Asociatiă Sportiva a Armatei Bucaresti; mentre la seconda è la squadra della polizia, fondata nel 1948 dal Ministero dell’Interno.

Tra gli anni ’60 e ’70 la Dinamo è uno squadrone, tanto da incrinare, durante le varie avventure europee, il blasone di Inter, Real Madrid e Atletico. Lo stesso Mircea segna 57 goal in 247 partite, ma la scena in quella grande Dinamo Bucarest se la prende Dudu Georgescu, il più grande calciatore rumeno prima dell’atterraggio sul pianeta Terra di Gheorghe Hagi. Centravanti da quasi 300 gol in carriera e vincitore della Scarpa d’oro nel 1975 e nel 1977, tanto da attirare su di sé le attenzioni del Real Madrid. Ma la Romania è un paese dell’Est e il Patto di Varsavia è una spada di Damocle per gli under-30 nati e cresciuti oltre la cortina di ferro. Nessuno può lasciare definitivamente il paese, nemmeno Dudu Georgescu. E neanche Mircea Lucescu, che non è forte come il suo connazionale, ma riesce a disputare un ottimo Mondiale (da capitano) in Messico nel 1970, il primo in cui la Romania riesce a qualificarsi sul campo (la storia della partecipazione rumena al mondiale uruguaiano del ’30 è troppo complessa e ci porterebbe fuori strada, nonostante sia anch’essa una straordinaria vicenda calcistica intrecciata alla grande storia del secolo breve hobsbawmiano). Le prestazioni messicane di Lucescu non passano inosservate, tant’è che la Fluminense scrive una lettera (in francese) al Ministero degli Esteri di Bucarest, chiedendo informazioni su questa seconda punta venticinquenne. Alla fine non se ne fa nulla: Mircea resta in Romania e non disputerà il derby con il Flamengo, che non è eterno di nome, ma lo è de facto. Il Brasile, comunque, resterà una magnifica ossessione per Lucescu che nel frattempo appende gli scarpini al chiodo e comincia un nuovo capitolo della sua biografia.


La figurina del capitano della Romania ai mondiali del 1970. – © Ebay / Bluronin85

Poliglotta come solo un rumeno può essere, alla fine del secolo Mircea Lucescu stringe un forte legame con un franco-algerino, tale Franck Henouda, agente calcistico. All’epoca gli occhi dell’allenatore rumeno sono piantati, ogni sera, sui magnifici tramonti di Istanbul. Ma cosa ci fa in Turchia un ex calciatore rumeno, a cui è sempre stato impedito di lasciare il proprio paese? Procediamo con ordine. Terminata la carriera di calciatore, Mircea trova presto un impiego dall’altro lato della barricata, in panchina. Nel 1979 ricopre un ruolo da “accentratore” (calciatore, allenatore, manager) a Hunedoara, in piena Transilvania. Forse annoiato dalla location non propriamente esaltante, Mircea comincia ad apprendere le lingue latine, impresa non impossibile per chi mastica il linguaggio di Emil Cioran (che comunque sia dal 1945 non ha più scritto nulla nella sua lingua materna). A soli 36 anni Lucescu diventa il commissario tecnico della nazionale capace di sbarrare le porte all’Italia campione del mondo sulla rotta per gli Europei del 1984. Uno 0-0 a Firenze e un tiratissimo 1-0 a Bucarest permettono alla Romania di approdare alla fase finale degli Europei di Francia ’84, dove riesce a strappare un pari alla giovane Spagna nata sulle ceneri del franchismo. A quarant’anni compiuti Mircea sembra piegarsi alla teoria nietzscheana dell’eterno ritorno: Dinamo Bucarest e nazionale da calciatore, nazionale e Dinamo Bucarest anche da allenatore. Fino al 1990 guida i cani rossi della capitale, con i quali vince e rivince campionati e coppe nazionali. Ma ormai i muri sono caduti, non è più tempo di fare fotografie politiche ed è arrivato il momento di aprire tutto. L’Occidente si apre alla vista del comandante Lucescu e lui, ricordando la cavalcata verso gli europei del 1984, non ha dubbi sulla rotta da seguire: che Italia sia.

Sul decennio italiano di Mircea si è scritto tanto e gli aneddoti si sprecano. Il drammatico esordio al Pisa del presidente Anconetani («un padre-padrone che pagava lo stipendio solamente a fine anno»); il frullatore mediatico dell’Inter di quegli anni (Taribo West ebbe il coraggio di lanciargli la maglietta addosso); le montagne russe sulle rive del Garda, quando il suo Brescia dei rumeni” diventa un pirotecnico ascensore che sale e scende in continuazione dalla A alla B. Fa esordire all’ombra della torre pendente un ventenne Cholo Simeone e un decennio prima di Baggio regala al Presidente Corioni un numero 10 della vecchia scuola, quel Gheorghe Hagi che ha incantato, a tratti, l’Europa intera. E, dulcis in fundo, si rende protagonista di un episodio iper-citato in queste ultime settimane, facendo esordire in serie A un sedicenne bresciano dai capelli lunghi, che riabbraccerà nuovamente stasera e potrà tornare a guardarlo negli occhi. Questa volta da mister a mister.

Mircea Lucescu e Andrea Pirlo, oggi. – © UEFA Champions League

Tornando allo scavallamento del secolo, è da allenatore del Galatasaray che Mircea si imbatte in Franck Henouda. Insieme formano una coppia che farebbe invidia ad Andy Osnard ed Harry Pendel, con una sola, grande, distinzione: l’agente Henouda (a differenza del sarto di John le Carré) non inventa nulla, ma si limita a riferire quali siano i migliori calciatori sul mercato. E, soprattutto, dove si trovano. Il mancato passaggio alla Flu ritorna nella mente di Lucescu che comincia, grazie al franco-algerino, a reclutare vari calciatori brasiliani. Dal calderone del paese più assurdo del mondo l’agente mediterraneo pesca Mario Jardel, 22 gol in 24 partite di campionato e, soprattutto, la doppietta estiva con cui la squadra turca sbaraglia il Real Madrid galactico e porta la Supercoppa europea sulle rive del Bosforo. Il sodalizio con Franck Henouda prosegue, cresce e diventa un fattore decisivo durante la permanenza ucraina di Lucescu. Prima di passare allo Shakhtar, Mircea si toglie la soddisfazione di vincere un campionato a Galata e un altro a Besiktas (dopo otto anni di astinenza): impresa assolutamente non banale a quelle latitudini. Salutati i bianconeri di Istanbul, a Mircea sembra figurarsi davanti la possibilità di un pensionamento dorato in una ricca (per pochi eletti) regione ucraina. Macché. Nei suoi dodici anni nel Donbass, Mircea Lucescu vince tutto quello che si può vincere, tra cui una straordinaria Coppa Uefa nel 2009, la prima coppa europea vinta da un ex paese sovietico. Allena, in ordine sparso, Matuzalem, Fernandinho, Elano, Fred, Willan, Douglas Costa, Luiz Adriano, Ilsinho. È la sua migliore creazione, è lo Shakhtar verdeoro. Ci vogliono grandi doti di persuasione per convincere dei giovani brasiliani a trasferirsi in una gelida regione mineraria nella profonda Ucraina. Doti che a Mircea, chiaramente, non sono mai mancate.

Mircea Lucescu e la Coppa Uefa vinta nel 2009. – © Reuters / Kai Pfaffenbach

A 75 anni, Mircea Lucescu, non voleva essere di troppo. Lui, che è nato una settimana prima dello sgancio dell’atomica su Hiroshima, ha sempre avuto dalla sua l’arte della diplomazia, oltre a delle naturali capacità conciliatrici. Il presidente della Dinamo Kiev, però, si è messo di traverso, ha respinto le dimissioni dell’allenatore rumeno e gli ultras si sono acquietati. E così, a 75 anni, Mircea Lucescu, proprio come Jep Gambardella, continua a perdere tempo a fare cose che, al contrario, gli va di fare. Nella fattispecie: sedersi in panchina, allenare, vincere (in pochi mesi ha già conquistato la Supercoppa nazionale, 35esimo titolo in carriera), con il suo solito sorriso sornione e la consapevolezza di essere riuscito, quasi sempre, a piegare il mondo alla propria volontà.

Bună Mircea, bine ai revenit în Italia.

© Getty Images / Vladimir Ivanov