Immaginate di essere un chitarrista nel Brasile di inizio 1960. Avete registrato un album che ha avuto un buon successo e ancora non avete finito di godere della piccola fortuna che vi siete faticosamente costruiti in Brasile. Condividete con tutti i musicisti della vostra generazione il sogno di riuscire, un giorno, almeno ad assaggiare uno dei palcoscenici degli Stati Uniti d’America.
Un sogno destinato a rimanere tale quasi per tutti. Eppure qualcuno, a settemila chilometri di distanza, inizia a parlare di voi, della vostra musica e, come se non bastasse, inizia pure a suonarla. Improvvisamente, l’America vi sembrerà molto più vicina.
In quanto ingordi ascoltatori passivi, siamo abituati a cercare il nome di un artista sulle principali piattaforme musicali, a mettere la prima traccia dell’artista che ci propina la piattaforma in base al Grande maestro occulto Algoritmo e, se va bene, ascoltare 45 secondi della traccia. Probabilmente se cerchiamo Stan Getz o abbiamo già attraversato quella fase post-puberale in cui per affrancarci dall’adolescenza musicale iniziamo a dire “oh, ma lo ascolti il jazz?”,” ma sai che mi piace il jazz”, “senti sto pezzo jazz” oppure il jazz lo abbiamo divorato con i timpani. Che lo si cerchi per un motivo o per l’altro, il nome di Stan Getz rimane legato a doppio filo con quello della bossanova. La prima canzone che esce digitando il suo nome è “The girl from Ipanema”, poi troviamo “Corcovado” e se andiamo a cercare tra gli album troviamo prima una compilation con tutte le sue registrazioni di brani bossanova (quelle fatte dalla Verve, mica da uno a caso) e al terzo posto troviamo l’album del ’63 “Getz/Gilberto”. Sembra che Stanley Gayestsky abbia iniziato fare musica solo dopo essere entrato in contatto con la saudade che gli scorreva nelle vene, in un momento imprecisato a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
In realtà negli anni ’60 Getz aveva alle spalle anni di attività. Aveva preso parte ai grandi movimenti del jazz, e aveva anche goduto di un periodo di relativa fortuna. Mentre suonava nelle grandi orchestre swing e registrava il suo “Early Autumn”, però, l’hard bop aveva consacrato un colosso come Sonny Rollins; quando aveva fatto suo il linguaggio del cool jazz, le stelle di Gerry Mulligan e Chet Baker avevano oscurato la sua luce. Mentre l’America si preparava alla grande rivoluzione del “jazz modale” di Davis e Coltrane negli anni ’60, Stan stava suonando swing e bepop in Scandinavia con i musicisti locali, tagliato fuori dalla nuova moda che era destinata a conquistare il mondo. Con l’uscita di “My Favourite Things” di Coltrane, la sua fama aveva iniziato a declinare molto velocemente: aveva perso il favore della critica, le date iniziavano a ridursi, il suo nome a girare di meno. Stan si stava accorgendo, suo malgrado, di quanto la memoria del pubblico fosse corta. Di certo la passione per gli alcolici e soprattutto per l’eroina non aveva aiutato la sua carriera: oltre a spingerlo a qualche furto minore per pagarsi le dosi, la sua dipendenza lo aveva portato a presentarsi a un concerto talmente cotto che quasi si era fatto mozzare la testa durante il numero di un orso ammaestrato. Si, un orso. Che a qualcuno fosse venuta in mente la brillante idea di portare un orso di tre metri su un palco durante un concerto ci suggerisce quanto fosse comune l’utilizzo dell’eroina all’epoca.
In una delle poche date che si era guadagnato dopo il 1960, però, Stan si era trovato a suonare in un club di Washington D.C. con un chitarrista di nome Charlie Byrd.
Byrd era appena tornato da un lungo tour nella primavera del 1961 in America Latina finanziato interamente dal Dipartimento alla Difesa degli USA e – un po’ per suo interesse un po’ per precise direttive di Stato – aveva riportato indietro un gran numero di nastri, provenienti da tutto il Sud America. Tra questi non poteva mancare quello strano ibrido di jazz e samba che stava spopolando già da qualche anno e che in Brasile chiamavano “bossanova”. Byrd, da buon chitarrista, era rimasto colpito dalla batida ed era assolutamente convinto che avrebbe spopolato anche in madrepatria, ma in realtà si stava giocando le sue ultime carte proponendo a Stan di suonare con lui quella musica. Nessuno sembrava condividere l’entusiasmo di Byrd per la bossanova. Non era peraltro cosa semplice suonare quelle samba-cançoes: lo stesso Getz, improvvisando per la prima volta su “Chega de Saudade”, si lasciò andare a un gesto di stizza quando si accorse di quanto fosse difficile comprenderne davvero il linguaggio. Era un incontro complesso, forse, ma che arrivava nel momento in cui Stan era alla ricerca di qualcosa che imprimesse una svolta alla sua carriera, che gli permettesse di recuperare un po’ di visibilità e di rimediare qualche soldo: la bossanova aveva le potenzialità per dare una scossa ed era una scommessa che Stan si sentiva disposto (o forse obbligato) a correre. Per questo, aveva deciso di chiamare il suo produttore Creed Taylor, chiedendogli di organizzare una sessione di registrazione per l’occasione.
Jazz e bossanova fecero così conoscenza in un pomeriggio di Febbraio del 1962, quando, nella All Souls Unitarian Church di Washington D.C., Stan Getz e Creed Taylor si incontrano con i fratelli Byrd per registrare “Jazz Samba”, il primo album di bossanova suonato da “profani” del genere.
Era l’inizio della “stagione d’oro” della bossanova negli USA. L’album avrebbe avuto un successo che nessuno si aspettava e ci avrebbe messo pochissimo tempo a diventare quasi un oggetto di culto. Il culmine era destinato ad arrivare quando, il 21 Novembre del 1962, una lineup di superstar brasiliane entrò nella Carnegie Hall di New York per il primo concerto interamente dedicato alla bossanova al di fuori dei confini nazionali. Joao Gilberto e Tom Jobim erano entusiasti all’idea di saltare al di là del mare e di esibirsi negli USA, cosa che, per molti dei loro idoli di gioventù, era rimasta nient’altro che un bel sogno. Di certo non si aspettavano di suonare a New York né di essere accolti addirittura dalla Carnegie Hall, già allora una delle più importanti sale da concerto del mondo intero.
Era la prima volta in cui il pubblico e la critica statunitense entrava direttamente in contatto con la creatura di Joao Gilberto. In realtà, il successo non fu immediato. Forse fu per colpa della foresta di microfoni dispiegata per l’occasione (un po’ troppo pomposa), oppure del cantato baixinho (a bassa voce) degli interpreti, o ancora di quel “monotonous mush” (per usare le parole di John Wilson, uno dei più importanti critici di jazz del momento) che faceva da sottofondo, non tutti caddero in estasi al primo impatto.
Chi aveva condiviso il palco e le note con quella folla di musicisti, però, aveva già intuito il potenziale musicale ed emotivo della bossanova, senza contare la risposta del pubblico, che sembrava essere sinceramente entusiasta. Seguendo la massima che suggerisce di “battere il ferro finché è caldo”, Creed Taylor, con occhio rapace e attento alle vendite, si era portato avanti col lavoro. Aveva colto l’occasione per avvicinare e convincere a partecipare a futuri progetti due dei massimi esponenti della bossanova, che già da anni calcavano i palchi del Sud America: Tom Jobim e Luiz Bonfà. Fu così che, a distanza di un anno da Jazz Samba, Luiz Bonfà, Vinicius de Moraes e Tom Jobim entrarono in studio con Stan Getz per registrare un nuovo album: Jazz Samba Encore!
La realtà? Questo Encore diceva molto poco di più di Jazz Samba e fu solo l’ingordigia del pubblico a salvarlo dall’essere etichettato come un flop. Senza contare che Bonfà era sicuramente un grande musicista, ma si era mostrato poco avvezzo alla nuova batida, che invece era proprio quella che musicisti e ascoltatori statunitensi chiedevano a gran voce. In pratica, quello che cercavano era riassumibile in due parole: Joao Gilberto. Joao, fino a quel momento aveva preferito tenersi un po’ in disparte. Aveva partecipato al live alla Carnegie e, ovviamente, seguiva con attenzione gli sviluppi della sua creatura nel paese a stelle e strisce, ma un po’ la sua timidezza patologica, un po’ la sua pigrizia, lo avevano spinto a decidere di godersi al massimo quello che il Brasile gli stava offrendo dopo anni di stenti. Lì lo adoravano: era una star e ormai non doveva dimostrare nulla a nessuno. Aveva anche conosciuto, proprio nel 1959, una cantante bahiana che avrebbe sposato di lì a poco e con cui avrebbe condiviso anche una parte della sua carriera artistica: Astrud Evangelina Weinert, per i più Astrud Gilberto.
Dopo gli esperimenti del ’62 e del ’63, la Verve era pronta a creare una ensemble di musicisti d’eccezione. Nel Marzo del 1963 si riunirono negli A&R Studios di New York Joao Gilberto, Astrud Gilberto, Tom Jobim (stavolta con piena libertà artistica), Stan Getz e Milton Banana, percussionista poco citato ma in realtà imprescindibile per la corretta esecuzione del tipico ritmo della bossanova. Quando Joao e Jobim entrarono insieme in studio, fu chiaro a tutti che quei dieci pezzi che si preparavano a registrare non avrebbero avuto nulla a che fare con i precedenti lavori targati USA: erano arrivati i brasiliani. Ovviamente, c’era da fare i conti con il caratteraccio di Joao Gilberto: Monica Getz si trovò più di una volta costretta a doverlo trascinar fuori dalla stanza di albergo fino agli studi di registrazione.
Superati questi piccoli inconvenienti, però, il lavoro in studio dava a tutti enormi soddisfazioni. Gli eleganti fraseggi al pianoforte di Tom, la batida senza esitazioni di Joao, la sua voce dolce, un po’ nasale e senza vibrati, le sonorità cool jazz del sax di Getz: tutto sembrava in equilibrio perfetto e i partecipanti ci misero poco a capire che sarebbe stato un successo. Inaspettatamente, però, a godere più di tutti della fortuna di questo incontro sarebbe stata Astrud Gilberto. Oltre ad avere un fascino bahiano che non aveva lasciato indifferente Stan (cosa che Joao non apprezzava per niente), era perfettamente bilingue e quindi l’unica che potesse far comunicare Stan con Tom e Joao, che l’inglese lo masticavano poco. La centralità di Astrud nel progetto faceva innervosire moltissimo Joao.
La situazione esplose quando Creed Taylor, a fine registrazione, lamentò il fatto che il disco fosse interamente cantato in portoghese brasiliano. Bisognava inserire almeno un paio di pezzi in inglese, ma il povero Joao aveva delle vere difficoltà a maneggiare una lingua che non conosceva bene e che, evidentemente, non si prestava metricamente al ritmo che lui aveva in mente. Dopo svariati tentativi che lo portarono sull’orlo di una crisi di rabbia, Stan e Monica Getz studiarono una soluzione per ottenere quello che volevano: far cantare Astrud, così da dare a Joao una traccia su cui muoversi. Quando sentirono la prova di Astrud su “The Girl from Ipanema” e “Corcovado”, restarono folgorati. La sua voce era morbida e sensuale, la pronuncia un po’ calante e strascicata, ma assolutamente godibile: doveva essere lei a cantare. La cosa, ovviamente, fece infuriare Joao (e Tom gli diede corda): Astrud era sua moglie, lo aveva accompagnato per tenergli compagnia e fargli da traduttrice, non aveva esperienza e poi quelle erano le sue canzoni, il suo momento, la sua musica e il suo album. Fu necessaria una grande operazione diplomatica per fermare Joao dalle sue minacce di ammutinamento. Si convinse a lasciar correre solo quando gli promisero che le canzoni sarebbero state cantate per metà in portoghese da lui e per l’altra metà in inglese da Astrud. Il comportamento di Joao, oltre a segnare l’inizio della fine del suo rapporto con Astrud, non piacque a nessuno dei suoi collaboratori. La punizione non tardò ad arrivare. Creed Taylor, lanciando il singolo di “The Girl from Ipanema”, tagliò del tutto la parte cantata da Joao. Il successo straordinario del singolo superò di gran lunga la versione dell’album. Joao non potè far altro che accettare che la bossanova, ormai, non fosse più una sua esclusiva.
Era ovvio che ormai la bossanova stava per entrare a far parte di un patrimonio collettivo culturale comune. Aveva ormai fatto il “salto di specie” definitivo e si preparava a cavalcare la poderosa macchina di produzione e distribuzione americana che l’avrebbe portata in ogni angolo del mondo. Ovviamente il giudizio positivo non è unanime: spesso per i jazzisti è un genere troppo “leggero” e per le persone “comuni” risulta eccessivamente “complesso”. Possiamo anche etichettare il tutto come aveva fatto il padre di Joao, il signor Juveniano, quando aveva parlato del “noioso nhem-nhem” su cui suo figlio perdeva le giornate. Joao, però, era sempre stato profondamente convinto del fatto che prima o poi tutto il mondo si sarebbe accorto di lui. Alla fine non si sorprese neanche troppo nel comprendere che aveva ragione lui quando, nelle lunghe giornate di solitudine passate a suonare e cantare, a cercare quella “cosa nuova”, si ripeteva come fosse una preghiera che “era solo una questione di tempo”. Non aveva recriminazioni da fare: per lui la cosa più importante era sempre stata che tutti ascoltassero la sua musica e applaudissero il suo genio, che tentassero di suonarla, cercando – spesso goffamente – di riprodurre la sua batida, di copiare il suo timbro e il suo accento brasiliano, di avvicinare il suo stato d’animo. Adesso, lentamente, tutto questo stava prendendo forma davanti ai suoi occhi e alla fine non gli fu così difficile pagare il prezzo che quella enorme fama gli avrebbe chiesto. Del resto come poteva lamentarsi? Stava per prendere possesso del mondo interno! Tutti sarebbero prima o poi entrati in contatto con la bossanova, a volte anche senza farci troppo attenzione, come fosse un giusto sottofondo per qualsiasi attività quotidiana, quasi riuscisse a toccare e a smuovere dolcemente le parti più profonde in ognuno di noi. Cantando baixinho, sottovoce, come piaceva a Joao.