I Paesi dell’Europa Orientale sembrano spesso lontani dai cugini occidentali, perché? Quali sono le questioni che mantengono vivo un nazionalismo esasperato nei confronti della costruzione di una casa comune europea?
Centodieci anni fa, la cartina europea era decisamente diversa da quella che vediamo oggi. Grandi imperi tenevano sotto di sé diverse culture e popoli e le potenze europee si apprestavano a vivere un trentennio caratterizzato da due conflitti mondiali.
Quello che può cambiare in pochi anni è frutto di determinati eventi e, in questo caso, la prima guerra mondiale rappresentò sicuramente uno spartiacque, la causa della rovinosa caduta degli ultimi grandi imperi del secolo scorso.
Nel 1917 crollava il grande Impero sovietico, nel 1918 si sgretolava l’Impero austro-ungarico e il 1922 era la volta dell’antichissimo Impero Ottomano.
Grandi cambiamenti determinò, nel contesto europeo, la dissoluzione di quel grande coacervo di popoli e culture che era l’Impero Austro-Ungarico, in particolare nel territorio dell’Europa centrale, che sarà l’oggetto della nostra analisi.
Nella monarchia asburgica, nel XIX secolo, si potevano contare undici distinti gruppi nazionali.
Al primo posto vi erano ovviamente i tedeschi, cui tradizionalmente spettava un ruolo di primo piano nel governo e nell’esercito, seguiti da magiari, preminenti nei territori della Corona di Santo Stefano, dove vivevano altresì popolazioni romene, slovacche, e slave meridionali.
Al di sotto di queste due popolazioni dominanti si collocavano i cechi, i polacchi, i croati e, in parte, gli italiani, seguiti a distanza dagli slovacchi, serbi, sloveni e dai “ruteni”.
La posizione di ogni popolo in questa scala si rifletteva anche nella sua composizione sociale a seconda che esprimesse o meno l’élites nobiliari e forti ceti borghesi o che fosse in maggioranza costituito da contadini.1
Andremo ad analizzare 3 Stati che emersero a seguito della dissoluzione dell’Impero: Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia.
La fine della grande guerra comporterà la nascita di due nuovi Stati (la repubblica Cecoslovacca e la seconda repubblica di Polonia) e il ridimensionamento di quello che era stata la potenza di minoranza del vecchio impero: l’Ungheria.
L’esito della prima guerra mondiale determinò per questi tre paesi vicende differenti.
Ungheria
L’Ungheria fu un territorio a lungo conteso, il cui trono fu di volta in volta attribuito a dinastie straniere: dagli Angiò agli Asburgo. Con il trattato di Carlowitz del 1699 entrava a pieno diritto nell’impero Asburgico. Durante i moti del 1848 l’Ungheria dichiarò la propria indipendenza dall’impero, con l’intento di creare una Repubblica, ma il tentativo ebbe vita breve e infine fallì. Il regno magiaro riuscì a trovare un accordo con gli Asburgo soltanto nel 1867, con l’acquisizione di un’ampia autonomia e con la nascita dell’Impero Austro-Ungarico, alleanza che li vedeva comunque in una situazione di subalternità rispetto agli austriaci.
Facendo parte dell’impero Asburgico, l’Ungheria uscì sconfitta dalla prima guerra mondiale e dovette pagare il carissimo prezzo del trattato di Trianon (tutt’oggi definito in Ungheria “Tragedia di Trianon”), uno dei quattro trattati relativi ai paesi sconfitti che seguirono quello di Versailles, per effetto del quale l’Ungheria subì ingenti perdite sia dal punto di vista territoriale che dal punto di vista della popolazione: «Rispetto a quella del regno prebellico, la sua popolazione venne ridotta da 19 a 8 milioni e il territorio di oltre due terzi.
Oltre a ciò Trianon significò la perdita del 61,4% della terra arabile, l’88% dei boschi, il 62,2% delle ferrovie, il 64,5% delle strade battute, l’83,1% della produzione metallurgica, il 55,7% degli impianti industriali e il 67% degli istituti bancari e di credito del Regno divennero parte di altre nazioni»2.
La bruciante sconfitta e le eccessive sanzioni nei confronti dello Stato magiaro lasciarono una grossa impronta nel paese che non a caso, negli anni successivi, fece di tutto per porre rimedio all’onta subita: «Alla fine degli anni ’20 l’Ungheria firmò un accordo di amicizia con l’Italia fascista e a partire dalla metà degli anni ’30 finì definitivamente nel novero degli “stati satellite” della Germania nazista, riprendendo la politica antiebraica dopo un decennio di sostanziale tolleranza»3.
Sono passati cent’anni dal trattato di Trianon, eppure ancora oggi in Ungheria l’argomento è ancora molto attuale e spesso ritorna nei comizi politici di Viktor Orban.
Polonia
Meno fortunata rispetto all’Ungheria era stata la storia della Polonia, che lungo tutto il ‘700 aveva dovuto fare i conti con ben tre spartizioni, sparendo altrettante volte dalla cartina geografica: nel 1772, 1793 e 1795. Alleatasi con Napoleone, scontò la sconfitta del generale francese, subendo nel 1814 un’ennesima divisione, ed il territorio fu assegnato in parti diverse a Russia, Prussia e impero Austro-Ungarico: «la maggior parte del napoleonico Ducato di Varsavia […] toccò alla Russia, che la incluse nel suo Impero col nome di Regno di Polonia, Torun, Danzica e la Posnania andarono alla Prussia. […] Cracovia era costituita in città libera, mentre la parte orientale della Galizia polacca andava all’Austria»4 .
Totalmente opposto fu per la Polonia anche l’esito del primo conflitto mondiale.
Al termine della Grande Guerra, infatti, vide riconosciuto, a distanza di oltre un secolo, il “risarcimento” delle tragiche spartizioni. Tutti gli alleati concordarono infatti nella creazione di uno Stato-cuscinetto tra Germania e Russia e il Presidente degli Stati Uniti Wilson lo inserì tra i 14 punti per il nuovo ordine globale successivo al primo conflitto mondiale. Era la nascita della “Seconda Repubblica di Polonia”.
Un’esperienza travagliata che durerà all’incirca vent’anni, utile a mettere in luce alcuni problemi che restano ancora di grande attualità: «Oltre alle complesse spartizioni territoriali, ci riferiamo alla situazione etnica, con la popolazione che, nel censimento del 1931 si definiva: per il 69% polacca, il 14% ucraino, l’8,6% ebreo, il 3,1% bielorusso e il 2,3% tedesco. Altre importanti differenze riguardavano la religione: 62-64% romano cattolici, 12% cattolici di rito greco, 11% di ortodossi, 10% israeliti e 3-4% protestanti»5.
Cecoslovacchia
Per quanto riguarda quella che fino a qualche anno fa definivamo Cecoslovacchia, parliamo di un territorio che per tutto il ‘700 e ’800 fu sottoposto al controllo dell’Impero Austro-Ungarico, ad eccezione del territorio della Slesia, corrispondente alla parte più settentrionale del regno di Boemia, a lungo conteso per tutto il XVIII secolo tra Prussia e impero Asburgico. Il territorio cecoslovacco emergerà a partire dal tentativo fallito di trasformazione federalista di quest’ultimo. Questa unità si realizzerà concretamente solo alla conclusione della Prima Guerra Mondiale, su pressione delle potenze vincitrici.
A seguito della dissoluzione del grande Impero austro-ungarico, i trattati costitutivi del 1919, sancirono la nascita statuale della Cecoslovacchia.
Da tali trattati «[…] emerse uno Stato di dimensioni importanti (140.000 Km quadrati, quasi 15 milioni di abitanti nel 1930) basato sul “condominio” delle due nazionalità titolari. I cechi formavano la metà della popolazione complessiva, mentre gli slovacchi il 15%»6.
Ciò garantì un periodo di stabilità, pur con inevitabili tensioni dovute al fatto che le più importanti minoranze etniche, tedesche e slovacche, non erano soddisfatte del dominio economico e politico dei cechi, e alcune comunità tedesche e ungheresi non accettarono mai realmente la creazione del nuovo Stato.
Questi dissapori esploderanno in quelle che saranno le tensioni degli anni ’30 e che culmineranno nell’invasione nazista del 1938.
Un episodio che farà andare su tutte le furie Winston Churchill, il quale, a seguito dell’assenso del primo ministro inglese e francese all’annessione del territorio cecoslovacco alla Germania di Hitler, apostroferà i due capi di stato con la celebre frase:
Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra.
Come si è potuto notare seguendo questa nostra analisi, soprattutto per il caso polacco e cecoslovacco, nel primo dopoguerra venne mantenuto un assetto territoriale che teneva conto delle minoranze etniche all’interno dei singoli Stati.
Fu una scelta figlia del clima di ottimismo che si era creato attorno alla neonata Società delle Nazioni, nella fiducia nella diplomazia e nel fermo proposito di evitare un altro conflitto come quello del 1914.
La storia ci insegna che la fiducia dei capi di Stato dell’epoca era malriposta: le rivendicazioni territoriali della Germania nazista avevano come pretesto proprio le minoranze tedesche in territori stranieri.
Ecco dunque che a seguito della Seconda Guerra Mondiale il criterio per la suddivisione degli Stati d’Europa centrale fu completamente diverso; potremmo riassumere il nostro pensiero in questa maniera: se alla fine della prima guerra mondiale si reinventarono e ridisegnarono i confini, mentre i popoli furono lasciati dove si trovavano, dopo il ’45 accadde il contrario, cioè le frontiere rimasero sostanzialmente inalterate, mentre furono spostate le persone.
La pulizia etnica vide la migrazione di decine di milioni di persone nei popoli centroeuropei, con un prezzo altissimo in termini di vite umane, la distruzione del tessuto sociale di città e regioni, tensioni etniche e territoriali le cui conseguenze si trascinano fino ai nostri giorni. Nei Sudeti di lingua tedesca, circa tre milioni di persone furono espropriate ed espulse immediatamente e analoghe discriminazioni toccarono alla vasta minoranza ungherese, colpevole come quella tedesca e in egual maniera responsabile del disastro bellico, fino alla firma di un accordo di scambio tra gli ungheresi di Slovacchia e gli slovacchi d’Ungheria, che investì poco meno di 100.000 persone per parte e fu attuato tra il ’47 e il ‘48. Si trattava di forzature alle quali le popolazioni interessate aderivano per non essere espropriate delle terre e dei beni.
Una identità di lingua, cultura e tradizioni che caratterizzerà Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria per tutti gli anni successivi e che tutt’oggi tende a far sentire i suoi effetti, soprattutto quando si fa riferimento all’idea di Stato, alle migrazioni e al tema dei confini nazionali.
Riferimenti
1: G. Lami, Storia dell’Europa orientale. Da Napoleone alla fine della prima guerra mondiale, Le Monnier, Milano 2019, p. 121
2: Ivi p. 13
3: S. Bottoni, Un altro Novecento, Carocci editore, Roma, 2011 cit. p. 53
4: G. Lami, La Storia dell’Europa orientale, cit. p. 13
5: S. Bottoni, Un altro Novecento, cit. p. 53
6: Ivi p. 35