Il 2 novembre del 1975 muore, in modo brutale e assurdo, Pier Paolo Pasolini. Cineasta, romanziere, giornalista, intellettuale potentissimo e sensibile, poeta. “E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo – ricorda l’amico e scrittore Alberto Moravia durante l’orazione funebre – Il poeta dovrebbe esser sacro”.
Criticato in vita, vilipeso dopo la morte, negli ultimi anni Pasolini è tornato curiosamente in voga. In forma di meme sui social (alcuni di origine dubbia) o con citazioni estemporanee difficilmente collocabili, viene chiamato in causa sia a destra che a sinistra per legittimare idee o pensieri, spesso banali. È il caso soprattutto degli articoli degli anni ’70, scritti poco prima della morte e raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane, che contengono perle di abilità stilistica e sensibili analisi del contemporaneo. Tuttavia non sembra che la riabilitazione della figura di Pasolini sia passata per una revisione critica della sua opera. Viene il sospetto che Pasolini sia più citato che letto e viene da domandarsi se la costruzione del mito del poeta martire non rischi di ridurlo a un santino della libertà intellettuale, neutralizzando la complessità della sua opera. Proprio lui, che criticava l’omologazione della società dei consumi che ogni cosa riduce a merce, viene trattato come – orrore orrore – un brand, una firma per nobilitare parole o un marchio DOP per testimoniare veracità e amore per il popolo.
Sicuramente c’entrano le circostanze della sua morte, che di nuovo Moravia raccontava come un tremendo incidente anziché come un martirio, proprio per evitare che l’aura mitica arrivasse a coprire la specificità del lavoro intellettuale. C’entra il suo essere scomodo, mai allineato, volutamente contraddittorio. Ma questa beatificazione bipartisan c’entra soprattutto con il suo linguaggio: assoluto, potente, provocatorio, acrobatico anche se all’interno di un pensiero rigoroso. Lui stesso, intervistato da Enzo Biagi nel 1971 durante la trasmissione Terza B facciamo l’appello, dice che la “struttura delle sue opere è l’ossimoro, il definire le cose per opposizione, il contrasto insanabile”. Questo è l’elemento affascinante ma anche pericoloso: togliendo una frase dal contesto, cambia fatalmente il senso. La scrittura di Pasolini può esser piegata a slogan, diventa un supermercato delle parole da saccheggiare a piacimento. La struttura ironica e contraddittoria consente di isolare il pezzo di frase che meglio si adatta alle necessità del momento: possiamo fargli dire una cosa e il suo contrario. E così, è passato dall’avere tutti contro ad avere tutti a favore.
La passione per le citazioni di Pasolini ha trovato nel web terreno fertile. Girava addirittura (forse gira ancora) una presunta lettera ad Alberto Moravia, che Pasolini non ha mai scritto. La bufala, segnalata da diversi siti di debunking, era apparsa per la prima volta nel 2016 in un blog, per poi diffondersi nella rete. Il 24 Febbraio 2018, in chiusura di campagna elettorale, Matteo Salvini, dal palco della manifestazione in piazza Duomo a Milano, apriva l’intervento così: “A chi fa il processo ai fantasmi del passato dico: Mi chiedo se questo antifascismo rabbioso sfogato nelle piazze a fascismo finito non sia in fondo arma di distrazione che la classe dominate usa su studenti e lavoratori per veicolare il dissenso. Pasolini 1973”. La citazione (in questo caso pure sbagliata) convalida senza possibilità di appello: se l’ha detto Pasolini…
Il mito di Pasolini non riguarda solo la sua scrittura ma anche e soprattutto la sua immagine, il suo corpo. Per Roma Pasolini è un’icona, forse più di Fellini e della Dolce Vita. I suoi film Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), insieme ai romanzi Ragazzi di Vita (1955) e Una Vita violenta (1959) lo hanno consacrato a cantore delle borgate, quel mondo pre-industriale, pre-morale, pre-borghese in cui Pasolini ritrovava conservata una purezza, quella che nella già citata intervista con Enzo Biagi definiva “la Grazia“.
Le borgate erano insediamenti urbani di fortuna, la maggior parte abusivi, nate durante il Ventennio fascista per affrontare l’emergenza abitativa. Raccoglievano lontano dal centro sfrattati, disoccupati, lavoratori saltuari, immigrati, famiglie indigenti: una popolazione di emarginati le cui caratteristiche non si conciliavano con l’immagine che il Regime voleva imprimere al centro di Roma, che doveva essere monumento alla grandezza e centro di rinascita della Nazione. Pasolini arriva a Roma nel 1950, alle soglie del boom economico. Roma stava crescendo a dismisura e senza regola, tra nuove fatiscenti favelas e speculazione edilizia, in un continuum magmatico di cemento, cantieri, baracche, pratoni e acquitrini.
Nella galassia deforme delle periferie romane, nella corona di spine che cinge la città di Dio, Pasolini trova l’orizzonte della sua poesia. Riconosce un mondo culturalmente diverso e antropologicamente contrapposto ai valori della borghesia. Tuttavia niente si può sottrarre alla Storia e così Pasolini diventa il testimone di quello che chiamerà genocidio culturale: la sostituzione di modelli e valori delle classi popolari con quelli della classe piccolo-borghese, con la complicità dei mezzi di comunicazione di massa. Pasolini vede l’Italia intera attraversata da una profonda, irreversibile mutazione antropologica: il nuovo universo consumista aveva colonizzato tutto, anche quelle realtà marginali che nel Dopoguerra si erano salvate dalle ruspe del Progresso. Si compiva così la vera rivoluzione borghese, si instaurava la civiltà neocapitalista: linguaggio, cultura, bisogni, desideri erano omologati e plasmati sulla società dei consumi.
Pasolini è, dicevamo, un’icona della Roma popolare, soprattutto nel quartiere del Pigneto e della vicina Tor Pignattara, dove inizia la periferia est di Roma. Camminando per le vie, che ormai di popolare hanno solo la monnezza, è facile imbattersi in scritte o murales che interpretano la sua figura, alcuni di questi realizzati da riconosciuti artisti di street art. Troviamo Hostia, ribattezzato la Cappella Sistina di Torpignattara, dipinto dall’artista veronese Nicola Verlato. Rappresenta il momento della morte di Pasolini e la discesa del suo corpo verso un luogo allegorico, dove si ritrova bambino seduto sulle ginocchia della madre; ci sono Pino Pelosi e le figure di alcuni giornalisti, Francesco Petrarca e il controverso poeta Ezra Pound che Verlato accomuna a Pasolini per “essere stati respinti dalla società nella loro speranza di essere dei poeti formatori della società stessa”.
C’è poi Io so i nomi di Omino71, che rappresenta un Pasolini/Capitan America, eroe della verità in salsa Marvel. Il riferimento è all’articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” il 14 novembre 1974 dal titolo Che cos’è questo golpe? Io so, dove Pasolini dice di conoscere i nomi dei mandanti e degli esecutori delle stragi italiane, pur senza averne le prove. Lo sa perché è uno scrittore, un intellettuale “che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. ”
C’è poi l’opera di Mauro Pallotta aka Maupal L’occhio è l’unico che può accorgersi della bellezza, così chiamato in omaggio a una frase di Pasolini. Che però non è di Pasolini: citazione molto frequentata in rete, l’autore è invece tale Patrizio Barbaro che di Pasolini ha curato una biografia.
La realizzazione di graffiti e murales in zone periferiche della città è stata promossa dal Comune di Roma per recuperare aree degradate che negli ultimi anni, proprio grazie a questi interventi, sono diventate meta di turisti curiosi di uscire dal classico circuito del centro e incontrare la “Roma autentica”. I murales sono bellissimi e hanno realmente cambiato il volto di grigi quartieri sgarrupati. In più si sa, la periferia va di moda. L’esposizione del mito di Pasolini al Pigneto è corrisposta con la cosiddetta gentrificazione del quartiere, che ha progressivamente cambiato la sua composizione sociale. Nonostante l’edilizia a tratti fatiscente, i profumi di cucina esotica che salgono dai sottoscala, nonostante la presenza abbastanza esposta di regolari spacciatori, nonostante sia sporco e circondato da reti ferroviarie e cavalcavia, il Pigneto non è più un quartiere popolare. È diventato il quartiere degli artisti, con prezzi delle case gonfiati, locali alla moda ed estetica radical chic.
Pasolini è diventato un souvenir culturale, un’ icona pop, una bandiera da sventolare, un simbolo delle capacità profetiche dell’intellettuale di fronte all’ottusità e alla corruzione del Potere. Paradossalmente è stato addomesticato: il suo corpo è diventato un marchio, viene raccontato con le logiche di quella società dei consumi che per tutta la vita ha combattuto. La mitizzazione di Pasolini ci impedisce di storicizzarne il pensiero e quindi di dialogare con lui. Costruendo miti ci priviamo di interlocutori. Sostituiamo l’adorazione alla pratica del dubbio, rispondiamo obbedienti a un principio di autorità. È invece confrontandoci con i testi di Pasolini, cercandone il pensiero, criticandolo, interrogandolo, che possiamo rendergli giustizia. Pasolini ci chiama a ragionare. Se accettiamo queste versioni pret-a-porter lo rendiamo un oggetto di consumo, lo mettiamo a tacere. Lo uccidiamo un’altra volta.