Nel precedente articolo abbiamo parlato di come nel mercato videoludico americano di fine ‘82 fosse scoppiato l’equivalente di una bomba atomica. Fatta quasi letteralmente tabula rasa, molti analisti ritenevano che il settore sarebbe interamente scomparso e che ulteriori investimenti sarebbero stati una follia.

Il pubblico era disinteressato, i magazzini erano pieni di console e giochi invenduti, i principali protagonisti del settore avevano tirato su le sedie, spento le luci e chiuso la porta a chiave.

È a questo punto che entrò in scena il Giappone.

Dal grafico possiamo notare come la ripresa del settore avvenne in un arco di tempo più breve del mandato di un singolo presidente americano. Si osserva inoltre un altro dato interessante: che nel 1986 la sola Nintendo controllava tre quarti del mercato degli Stati Uniti. Com’è possibile?

Innanzitutto gli Stati Uniti erano in mezzo a un cambiamento epocale. Si apriva l’era della Japanese Invasion, come venne chiamata con sottotoni vagamente razzisti – il mondo occidentale stava iniziando a scoprire i manga, le arti marziali, l’animazione d’importazione, i film di Kurosawa e un paese che stava vivendo un’incredibile esplosione culturale.

Se vi siete mai chiesti perché la malvagia compagnia di Alien si chiami Weyland-Yutani o perché ci siano continui riferimenti al Giappone in Blade Runner, il motivo è questo: un tentativo psicologico di metabolizzare il forte influsso di una cultura di un altro paese – paese che affronterà una bolla tutta sua a fine decennio, che sfocerà in quella che viene chiamata la Decade Perduta, ma questa è un’altra storia.

Hokuto no Ken, noto in America come Fist of the North Star e in Italia come Ken il Guerriero, è un manga del 1983 e il 17° franchise più redditizio del mondo grazie ai suoi 22 miliardi di dollari di ricavi stimati. Il protagonista mischia l’aspetto tipico di un muscoloso eroe americano con movenze e urla ispirate a Bruce Lee. Fonte immagine: Toei Animation

In questo contesto di inizio anni ‘80 qualcosa si muoveva in quel di Kyoto. E si muoveva in particolare all’interno di un’azienda poco conosciuta e dalle idee confuse, un’azienda chiamata Nintendo.

Partita a fine Ottocento come produttore di carte da gioco, l’azienda aveva visto crollare il suo mercato originario e aveva annaspato in molti settori diversi, tra cui giocattoli, taxi, cibo, hotel e trasmissioni televisive. Fallimento dopo fallimento, settore dopo settore, l’azienda non sembrava poter trovare una nicchia in cui stabilirsi senza incappare in problemi insormontabili, e le mire di dominio economico del suo fondatore non sembravano trovare conferme nella realtà.

Arrivata agli anni ’70 Nintendo decise di gettarsi nel mondo dei videogiochi, prima come importatore di console americane, poi come produttore di console autoctone e infine producendo giochi per arcade.
Qui l’azienda sembrò trovare la sua forza, producendo grandi successi, aprendo la porta al mercato dei videogiochi portatili, coltivando talenti (tra cui spiccano i leggendari Shigeru Miyamoto e Satoru Iwata) e consolidando la sua posizione dominante nell’industria dell’isola.

Negli anni ’80, forte di prodotti dalla qualità comprovata e dalla conoscenza del mercato del settore, l’azienda decise che era il momento di seguire le onde e attraversare il Pacifico.

Sede originale di Nintendo a Kyoto, 1889. Fonte immagine: Wikimedia

Il mercato dei videogiochi precedente al 1983 era fortemente incentrato sugli Stati Uniti dal punto di vista produttivo. Come abbiamo già visto era anche enormemente diffuso, ma il tracollo creò un buco nero che, horror vacui docet, qualcosa avrebbe dovuto riempire. Magnavox chiuse il reparto videogiochi, Activision si spostò sui soli computer, la stessa leggendaria Atari collassò quasi completamente e ad oggi è a malapena l’ombra del padrone di mercato che era in quell’epoca. Si stava manifestando la conclusione di un’era, la fine di un’età dell’oro che lasciava spazio a nuovi paradigmi e nuovi protagonisti.

Il piano di Nintendo era semplice: entrare nel mercato in un momento di vulnerabilità sfruttando una console già di successo in Giappone, il Famicom (il cui nome ironicamente significa Family Computer). Ribattezzato Nintendo Entertainment System (NES) per l’occidente, la console fu revisionata, ridisegnata e riproposta con molta cura, seguendo filosofie di design diverse rispetto al suo aspetto originario. Al fine di ridurne i costi di produzione per questo nuovo lancio venne rimossa la funzionalità di computer.

Restava un piccolo problema di fondo: come convincere un pubblico che odia i videogiochi a comprare dei videogiochi?

Introdotto nel 1985, il sigillo ufficiale di Nintendo serviva a garantire la qualità dei suoi prodotti e identificarli tra la folla dei vari videogiochi di terze parti.

L’idea di Nintendo fu estremamente sofisticata. Rimossa la tastiera e molti altri extra dopo test effettuati alle fiere di settore, rimaneva il problema di convincere i distributori a vendere la console. La mossa vincente di Nintendo risiedeva però nel nome: invece di venderlo come console o come computer, il NES fu venduto come entertainment system, cioè come sistema di intrattenimento a tutto tondo invece che limitato ai soli videogiochi.

Se la console era stata infatti ridotta al minimo, ciò non si poteva dire del resto dei prodotti nella confezione. Includendo una pistola da puntare al televisore e il simpatico robottino programmabile R.O.B., l’obiettivo era tanto attirare attenzione quanto diluire l’immagine dei videogiochi ad essa associati.

Questi rappresentavano il secondo elemento della strategia: dovevano essere sviluppati con un’attenzione ossessiva per la qualità, stabilendo chiare linee guida, garantite dal dorato marchio Nintendo che l’azienda avrebbe stampato come simbolo del prestigio e della distinzione dei loro prodotti. E se giochi del calibro di Super Mario Bros e Duck Hunt non fossero bastati, il colpo di grazia l’avrebbe lanciato la massiccia campagna di studio del mercato dell’azienda: mandarono una squadra scelta in giro per le città americane a convincere catene e a organizzare eventi direttamente con i negozianti.

Da sinistra a destra: la console, la light gun e il robottino R.O.B. con i suoi accessori. Fonte immagine: walknboston|Flickr

Il risultato fu un successo così violento da piazzare Nintendo in una posizione di semi-monopolio. Se vi siete mai chiesti perché Nintendo sia così famosa e beneamata, è questo il motivo.
Uscendo prepotentemente dal Giappone nel 1985, l’azienda riscrisse le regole di come i videogiochi venivano prodotti e diffusi, contribuendo a risollevare le sorti del mercato e scrivendo definitivamente la parola fine nel capitolo del crash dell’83.

È troppo riduttivo dire che Nintendo ha salvato il mondo dei videogiochi, ma non è assolutamente errato affermare che senza l’azienda il settore oggi sarebbe estremamente diverso, e probabilmente molto più ridotto.

C’è una morale in questa vicenda? Che il capitalismo è una ciclica serie di crisi e tracolli annunciati che finiscono per arricchire solo un limitato numero di persone. Ma al di là dell’economia in generale, le regole stabilite da Nintendo – almeno per quanto riguarda il campo strettamente del design dei videogiochi – sono ancora oggi parte del lessico dell’industria in generale. È un’utile lezione di storia, che pone le basi per discutere del mondo dei videogiochi moderni e porta l’attenzione su come una attenzione alla qualità (unita a piani di marketing e di posizionamento del prodotto efficaci) può invertire le tendenze di un intero mercato.

Immagine di copertina di Tomasz Filipek | pexels.com