Come ormai abbiamo imparato, le elezioni negli Usa non si decidono su scala nazionale ma stato per stato. Nessuna delle 50 stelle è uguale all’altra – e siamo d’accordo – ma alcune di loro hanno caratteristiche storiche, sociali, culturali e in definitiva politiche abbastanza omogenee. Questa è la sesta di otto tappe con cui The Pitch proverà a condurvi nelle pieghe del gigante americano. Molto meno monolitico e più sfaccettato di quanto siamo abituati a pensare. Perché ancora una volta sarà una manciata di stati-chiave a definire il nome del prossimo Presidente.
Piccola premessa: del Midwest, o almeno di parte di esso (Michigan, Wisconsin, Illinois, Indiana e Ohio), abbiamo parlato quando abbiamo cercato di inquadrare a livello politico la cosiddetta “Rust Belt“. Gli altri stati che lo compongono, i più occidentali, sono più rurali, meno popolosi e – anche per questo – tradizionalmente meno decisivi per i destini elettorali del paese. D’altronde “Midwest” è un’espressione geografica, letteralmente “medio occidente”, di fatto la macro-regione di transizione tra le coste atlantiche in cui tutto è nato e il West verso cui l’espansione dei neonati Stati Uniti si è gradualmente indirizzata. Ma tra le grandi città industriali dei Grandi Laghi, quelle della “Rust Belt” appunto, e gli stati agricoli delle Great Plains (le grandi pianure del centro del continente) c’è una differenza profonda: ecco perché abbiamo deciso di dedicare al secondo gruppo un articolo apposito.
Siamo nel pieno della cosiddetta “America profonda”. Qui a farla fa padrona è ancora l’agricoltura, sempre più intensiva, e le grandi città si contano sulle dita di una mano: Saint Louis (Missouri), Omaha (Nebraska), Wichita (Kansas) e Minneapolis (Minnesota) le uniche a superare i 300 mila abitanti. Proprio Minneapolis, gemella della capitale Saint Paul, è stata teatro di uno dell’episodio che più ha segnato e sta segnando la campagna elettorale: l’uccisione, il 25 maggio scorso, del 47 afroamericano George Floyd da parte di alcuni agenti del dipartimento di polizia della città. Un evento che ha dato nuova linfa al movimento “Black lives matter” e ha rinfocolato le polemiche sugli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine, accusate di avere atteggiamenti discriminatori nei confronti dei neri quando non apertamente razzisti. Minneapolis e il Minnesota tutto ne hanno risentito.
Si tratta comunque di uno stato tradizionalmente filo-democratico: i suoi 10 delegati vanno all’asinello ininterrottamente dal 1976, il più lungo filotto di sempre per i dem se si esclude il distretto della capitale (merito delle elezioni del 1984, in cui solo il Minnesota, terra natale del suo avversario Mondale, separò Reagan da un incredibile en plein). Anche stavolta lo stato più freddo degli Usa continentali non dovrebbe destare sorprese: Biden secondo i sondaggi è avanti di otto punti percentuali (53-45) e, a giudicare dalla sua latitanza da queste parti, considera lo stato nella lista dei sicuri. Spostandosi a sud, ben più in bilico è invece l’Iowa, noto soprattutto perché è da qui che tradizionalmente parte la corsa delle primarie di entrambi i partiti. Appena sei grandi elettori ma una discreta tradizione di swing state. Battleground state, viene definito. Un campo di battaglia.
Si tratta di uno stato agricolo di transizione tra le due sub-regioni del Midwest (East North Central, la “Rust Belt” appunto, e West North Central), di cui costituisce un’ottima sintesi: le contee più orientali e le città risentono dell’influenza dell’Illinois e sono solite votare democratico, quelle più occidentali e rurali rientrano già nell’area delle Grandi Pianure e sono tradizionalmente conservatrici. Fare previsioni qui è un azzardo: per ora nei sondaggi conduce Trump 50 a 49. Ma se la battaglia punto a punto in Iowa non è una novità, nei quattro stati più occidentali i repubblicani dovrebbero avere anche questa volta vita facile. North e South Dakota (3 delegati ciascuno) non si smuovono dal colore rosso dal 1964 e anche in Kansas (6), il più in bilico dei quattro, Biden insegue a dieci punti. In mezzo c’è il Nebraska, i cui 5 delegati sono spartiti tramite un sistema ben più cervellotico.
Insieme al Maine, è l’unico stato in cui non vige il principio del winner takes all (con un voto in più mi prendo tutti i delegati): 2 grandi elettori vanno a chi lo conquista nella sua interezza (e qui Trump dorme sonni tranquilli), gli altri 3 si riferiscono ad altrettanti distretti. Attualmente due sono solidamente nelle mani del presidente uscente, in uno Biden sembra potersi giocare le sue chance. Dove invece il candidato dem sembra aver già alzato bandiera bianca è in Missouri (10 delegati), il più meridionale degli stati del Midwest e per questo già in odor di Bible Belt. Realtà rurale e profondamente religiosa, ha tutti i crismi per rientrare nel bacino del Gop: nelle ultime tre elezioni in effetti è stato così ma per tutto il secolo precedente era stato un vero e proprio Beelwether state (“stato banderuola”), avendo sempre votato per il candidato rivelatosi poi vincitore.
L’ultimo dem a vincere quaggiù fu Clinton ma Bill, ex governatore del vicino Arkansas, era un uomo del Sud. Biden, che non lo è, insegue anche qui (55-45) ma siamo sicuri che se ne farà una ragione se, come sembra, non sarà il vecchio Midwest a rivelarsi decisivo il 3 novembre. Trump, dal canto suo, deve sperare che almeno gli stati delle Grandi Pianure non gli voltino le spalle. Altrimenti la (probabile) sconfitta si trasformerebbe in disfatta.
Nelle puntate precedenti:
1. Il Fortino del Nordest
2. “Rust Belt” ancora decisiva?
3. Il (profondo?) Sud
4. Il rebus della Florida
5. In Texas c’è partita?