Contea di Rush, Indiana 1935.
Un bambino dell’età di dodici anni sta giocando nel giardino di casa. Si dedica alla principale attività tipica della fase infantile: la scoperta del mondo attraverso l’esplorazione di ciò che lo circonda e lo incuriosisce. Rovista sotto la terra in cerca di un tesoro immaginario e si muove furtivamente tra i cespugli come il soldato che si cela nel buio dagli attacchi nemici. I sassi diventano armi taglienti da scagliare contro i fantasmi dell’infanzia ed enormi buche simili a trincee vengono scavate nel terreno fangoso. Un giorno, però, scavando sempre più a fondo, rovistando nella terra bagnata, si imbatte in una antica punta di freccia appartenuta a qualche popolo atavico. Geloso del proprio ritrovamento, in preda ad un attacco di entusiasmo, e di incoscienza, decide di nasconderlo da sguardi furtivi, riservando per sé tutto il piacere della scoperta.
“Nessuno deve sapere del mio ritrovamento, questa freccia è mia!”. Così, con l’uso inconsapevole dell’aggettivo possessivo “mio” si apre la storia del collezionista Don Miller e della sua corsa illecita ed esasperata alla ricerca di reperti di inestimabile valore artistico e culturale. Una corsa ad ostacoli che durerà fino all’età di 91 anni.
Cosi mi piace pensare che possa essere iniziata l’enigmatica storia di Don Miller.
Come disse il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau, la proprietà privata inizia proprio nell’istante in cui un uomo si sente in diritto di piantare una bandiera in Terra di “nessuno” ed affermare la propria pretesa individuale ed egoistica, a discapito degli altri, nel dire “questo è mio!”. Sul piano morale il comportamento di Don Miller dovrebbe essere condannato senza possibilità di appello, in quanto ha esteso la proprietà privata a un bene comune, impedendo all’intera umanità, per quasi un secolo, l’opportunità di poter ammirare e studiare il proprio patrimonio storico e culturale. Forse l’individualismo esasperato del fenomeno capitalista era già insito nella mente prematura del nostro protagonista? Vittima o colpevole della propria condotta?
Ma soprattutto, è possibile svincolare le stesse opere, imperniate ormai nella loro essenza dalla vita di questo “criminale”, restituendole ai “legittimi” proprietari? Cosa significa essere legittimo proprietario di un’opera d’arte?
In attesa di ottenere risposta a questi quesiti, a cui cercherò di rispondere seguendo la mia capacità di critica e giudizio, continuiamo la storia di Don Miller nel momento in cui la vita di quest’uomo si interseca con la storia dell’FBI.
- Washington, Columbia 2014
È il 1 aprile del 2014 quando una chiamata inaspettata spacca il silenzio di quella grigia giornata primaverile nell’ufficio Art Theft Program, un settore specifico dell’FBI che si occupa di investigare sul mercato illecito di opere d’arte. A rispondere è Tim Carpenter, agente speciale di supervisione del programma. In pochi minuti, il mondo istituzionale viene a conoscenza del segreto di un uomo che ha fatto dell’amore per l’arte la vocazione della sua intera esistenza.
Secondo un informatore, Miller era in possesso di un vasto tesoro di saccheggi illegali di manufatti culturali. L’ uomo al ricevitore faceva riferimento anche ad una ricca collezione di resti umani. Parliamo di ossa, crani, denti appartenenti a scheletri di defunti di popoli primitivi che vanno dalle tribù dei nativi americani all’antica popolazione haitiana.
Lo stesso Tim Carpenter dichiarò in seguito, dopo il primo colloquio con Don Miller: “La sua passione, credo, fossero i beni culturali dei nativi americani”. Sembrava quasi avesse inglobato il credo animista di questo popolo, facendo delle loro opere dei Totem da possedere e venerare. Quello stesso giorno Tim Carpenter seguito dall’antropologa Holly Cusack–McVeigh con il suo team di esperti bussarono alla porta della fattoria di Don Miller a Waldron, in Indiana.
- Waldron, Indiana 2014
L’antropologa Holly Cusack–McVeigh, che lavorava presso l’Indiana University a Indianapolis rimase, in seguito, letteralmente scioccata dall’ingente lavoro di catalogazione che l’aspettava. Il ritrovamento fu realmente sensazionale. Più di 42.000 oggetti, catalogati solo successivamente, inondavano completamente di una nuova luce gli spazi angusti del luogo. Dappertutto; nel giardino, nella cucina, nei bagni ed addirittura nel seminterrato, il team rischiava di capitolare su un pezzo di inestimabile valore.
Come dichiarò lo stesso Carpenter: “Immagina uno scenario in cui prendi un artefatto che è stato creato 4000 anni fa, è sopravvissuto nel terreno o in una tomba, è sopravvissuto al saccheggio, è sopravvissuto al trasposto negli Stati Uniti, è stato a casa di questo uomo negli ultimi 60 anni e lì arriva l’FBI, lo raccogliamo e inciampiamo, lo lasciamo cadere e lo rompiamo. E’ una giornata piuttosto brutta.”
Tra gli oggetti ritrovati ve ne erano alcuni davvero impensabili che produssero un notevole shock tra i presenti, come le imponenti teste di Mammut (che lo stesso Don Miller dichiarò a Tim Carpenter di possedere illegalmente per mezzo di un trasporto illecito proveniente dal Canada) così come il mosaico romano e la giada appartenente alla dinastia Ming.
La collezione di Don Miller era davvero sconfinata, variegata, preziosa; un furto che si estendeva su scala globale. Dal vastissimo territorio cinese passando per la Colombia, fino ad approdare sulle coste della verdeggiante Nuova Zelanda, senza escludere naturalmente i territori indigeni del Nord America, l’affascinante avventuriero Don Miller era riuscito a coronare il sogno di quel bambino, facendo dell’eredità storica del mondo il suo giardino esclusivo e personale.
La prima operazione di recupero durò 6 giorni a cui parteciparono Cusack–McVeigh, direttrice del lavoro sul campo, coadiuvata da un team di oltre 100 persone di cui facevano parte studenti e rappresentanti delle tribù di nativi americani locali.
A metà settimana, una pioggia fredda e torrenziale complicò il processo di rinvenimento e catalogazione, trasformando il cortile in cui si svolgevano le attività di recupero in un “gigantesco pozzo di fango”. Si deve allo zelo dell’agente Tim Carpenter il finanziamento per il repentino ripristino del luogo e l’avanzamento dei lavori. Solo in questa settimana, nonostante gli imprevisti, il team riuscì a registrare, fotografare e imballare più di 7000 reperti da destinare ai rispettivi paesi proprietari.
L’FBI, riscontrate le notevoli difficoltà tecniche, creò appositamente un sito web con le immagini dei reperti, che di volta in volta, il team specializzato catalogava, caricandole su internet, in modo tale da essere visibili alle culture di appartenenza. Alcuni oggetti, soprattutto i resti umani, non possedevano uno spazio nel grande archivio delle opere ritrovate perché considerate sacre da molto culture.
Nonostante l’urgenza del rimpatrio dei resti ossei non è stato richiesto nessun test invasivo alle tribù coinvolte nel progetto, come l’analisi del DNA. La maggior parte delle informazioni ottenute sui reperti erano il frutto, sia della collaborazione di Don Miller che fornì informazioni dettagliate della provenienza delle opere attraverso i documenti di trasporto, sia l’’attività meticolosa di ricerca da parte degli antropologi in grado di riconoscere e datare i gioielli trovati con i resti. Don Miller sembra, a questo punto, dopo aver a lungo cercato, scovato e custodito gelosamente i “suoi tesori”, essersi arreso, privandosi stoicamente di tutta la ricchezza accumulata durante la sua intera esistenza terrena.
Con queste parole, all’età di 91 anni, dichiarò a Carpanter il suo testamento: “E’ mio desiderio che prendiate questi oggetti e li restituiate ai legittimi proprietari, e che gli antenati nativi americani siano seppelliti in modo appropriato”. Ecco con cosa dovette fare i conti il criminale Don Miller: la sua coscienza. O forse con l’insensibile individualismo che diventa sensibilità umanitaria solo nel momento in cui indossiamo i panni dell’empatia. Così, solo quando lo spettro di Thànatos bussa alla porta, comprendiamo cosa sia il valore e la profondità del dolore. Ciò di cui parlava Ugo Foscolo nella sua poesia A Zacinto: la desolazione spirituale che accompagna una “illicrimata sepoltura”.
Il primo rimpatrio della collezione di Miller avvenne nel 2016 in Sud Dakota dove furono restituiti una dozzina di scheletri di individui appartenenti a varie tribù differenti.
Holly Cusack–McVeigh rimase accanto alla tomba durante tutta la fase di sepoltura: “Siete finalmente a casa”, dichiarò commossa all’intervistatore.
Senza togliere responsabilità alla condotta di Don Miller, la stessa Holly Cusack–McVeigh ha sottolineato come, negli anni prima del 1990 quando fu sancita la legge federale americana del NAGPRA (Native American Graves Protection And Repatriation) che rese dal quel momento illegale il commercio degli oggetti culturali appartenenti alle popolazione indigene, fosse semplice appropriarsi in alcuni siti archeologici di souvenir non autorizzati.
Nella biografia di Don Miller, oltre ad aver avuto la spiacevole rivelazione di essere un membro del progetto Manhattan (progetto per la costruzione della bomba atomica nucleare nella seconda Guerra Mondiale), ho appurato anche la sua ’attività missionaria nella cristianità svoltasi presso la comunità di Haiti. Infatti, un ingente parte della sua collezione che, potrebbe prendere tranquillamente l’accezione di “haitiana”, regalò notte insonni all’antropologa Holly Cusack–McVeigh. Più di 470 oggetti arrivarono sani e salvi a destinazione e furono scartati dall’Haitian Bureau Of Ethnology Museum. L’interminabile viaggio dei reperti, che iniziò da Indianopolis, fece scalo a Miami ed approdò a Port-an-Prince (Haiti), fece trattenere a lungo il respiro all’antropologa Holly Cusack–McVeigh ed il suo team di ricerca. L’idea, per lei, che tali oggetti di valore si potessero danneggiare, buttando via duri mesi di lavoro e sacrificio, le sembrava imperdonabile.
Per quello che si scoprì successivamente, la distruzione o il danneggiamento di questi oggetti sarebbe stata una catastrofe per la storia della popolazione haitiana. Di fatto, secondo il ricercatore Joseph Sony Jean, archeologo haitiano presso il Royal Netherlands Istitute of Southeast Asian and Caribbean Studies, studiando i reperti in questione,riscontrò una prova ulteriore che la storia di Haiti fosse iniziata molto prima della scoperta delle Americhe, riconducibile a Cristoforo Colombo del 1492. Come lui stesso dichiarò: “è importante studiare questi oggetti per avere una ricostruzione storica della cultura haitiana”.
Questo è, a mio avviso, un esempio esplicativo che ci fa comprendere l’importanza dell’oggetto culturale come sinonimo di bene collettivo, in quanto a partire da un singolo oggetto è possibile fare scoperte del passato che potrebbero servirci, oggi, come fonti storiche di conoscenza futura nella trasmissione ereditaria del sapere. La definizione di patrimonio culturale sancita durante la Convenzione di Nicosia (accordo internazionale che riguarda il traffico illecito di beni culturali) mi sembra esaustiva per comprenderne l’importanza:
“Il concetto di patrimonio culturale deve essere percepito ben oltre il senso materiale. La parola culturale implica una responsabilità precisa verso il nostro passato, le nostre origini, le nostre radici e da qui dobbiamo maturare la consapevolezza della necessità irrinunciabile della sua difesa. Difendere la nostra storia significa proteggere il nostro futuro, i valori di un popolo e il senso di essere comunità”.
Inoltre, mi pare illegittimo parlare di proprietari legittimi di un’opera d’arte pensando che, ogni giorno, un battitore in una casa d’aste abbia il diritto di decretare la vendita di “tesori culturali” di importanza collettiva, al primo facoltoso (che spesso di arte conosce ben poco) a colpi di osceni duelli di alzate di mano. Quindi la proprietà privata di un ’opera d’arte è un diritto di pochi che hanno la disponibilità finanziaria? Anche questo può essere considerato un mercato illecito? A rigore di logica Don Miller è un criminale ne più e ne meno di questa élite ristretta di “aristocratici” agiati e danarosi che mercanteggiano sul patrimonio storico, artistico, culturale del mondo.
Come il capitalismo, insidiandosi nella fragile mente di un bambino miete i semi dell’inguaribile malattia del possesso, così il sistema economico neoliberista invade il mercato dell’arte nel suo morbo capitalista più subdolo al grido: “Tutto è in vendita”. Se è tutto in vendita allora l’opera d’arte diventa come un cartone di latte nel ripiano di un supermercato.
Per me ogni giorno, nelle case d’asta non solo si consumano tra i crimini più “violenti” contro l’umanità ma si alimenta un mercato illegale a cui vertici si annidano gli interessi economici delle archemafie ( settore della criminalità organizzata che gestisce i traffici illeciti di opere d’arte e reperti archeologici).
Non è raro imbattersi in pezzi di dubbia provenienza durante gli appuntamenti tra case d’aste ed acquirenti finali. Prestigiosi musei stranieri, collezionisti esperti, gallerie d’arte rappresentano l’anello di congiunzione tra il mercato illecito e il mercato legale di opere d’arte.
Basti pensare allo scandalo suscitato negli anni 70 nella vicenda che vede coinvolti musei come il Getty, il Louvre e il British Museum legati all’attività illegale di Gianfranco Becchina, rappresentante in tutto il mondo degli interessi di Cosa Nostra nel settore artistico.
Come ha dichiarato Colin Renfrew, uno tra gli archeologi più celebri della nostra epoca, i veri responsabili del saccheggio del patrimonio culturale sono, di fatto, gli acquirenti finali.
Il caso di Don Miller è il piccolo pezzo di un puzzle nel grande impasse che vede coinvolto un giro di affari di dimensioni internazionali. A conoscenza di questi fatti, mi viene spontaneo alzare il pollice in su, nella maniera dell’imperatore che concede la grazia al condannato Don Miller per aver comunque adottato un’ atteggiamento verso la propria collezione che andasse oltre la semplice speculazione.
In fondo, ciò che lo spingeva a collezionare i suoi tesori era la passione per l’arte e l’amore per la scoperta.
Partendo da questo punto di vista, potrei obiettare, per quanto esso sia giusto e legittimo, la restituzione dei manufatti ai proprietari. Mi sembra quasi un’azione moralmente illegale cancellare completamente la storia di questi oggetti che si è inevitabilmente fusa con la storia personale dell’uomo che li ha custoditi per quasi un secolo.
Rispettando le istanze testamentarie del nostro ormai amico Don Miller, come quello di restituire ai discendenti i resti umani per una degna sepoltura, non sarebbe completamente sbagliato fare della fattoria dell’Indiana un museo, accessibile e godibile a tutti, come gesto di scusa all’umanità per aver egoisticamente scelto di privarla di una parte della sua identità.