a cura di Laura Aventi
Quante immagini sono passate sotto i nostri occhi, in questi anni, di animali e uccelli con la pancia piena di plastica? O di tartarughe marine con al collo quegli imballaggi di plastica per lattine di birra? La sensazione che proviamo quando vediamo quelle immagini è scomoda, è disagio nel vedere una cosa completamente contro natura. Stiamo guardando centinaia di specie animali che muoiono per colpa di una sola specie, che non lo fa nemmeno per il proprio sostentamento, ma solamente per pura negligenza. L’inquinamento da plastica è uno dei principali problemi a livello globale di questi ultimi anni, e siamo arrivati a lasciare che i nostri animali nuotino in un mare di plastica e abitino una casa che è diventata una trappola.
Ogni anno 100.000 mammiferi e 1 milione di uccelli marini muoiono per aver ingerito plastica. Abbiamo già parlato della plastica che finisce sulle nostre spiagge, che chiaramente è solo una frazione di quella presente nei mari e negli oceani. Ad oggi sono presenti 150 milioni di tonnellate di plastica nei mari del mondo, equivalenti a circa 10 milioni di tonnellate ogni anno. Se il trend non rallenterà subito, se la produzione non diminuirà o se non troveremo soluzioni per una migliore gestione dei rifiuti plastici, tra soli trent’anni, nel 2050, negli oceani avremo in peso più plastica che pesci.
La plastica sta mettendo a rischio l’intero ecosistema marino, per due motivi. Il primo riguarda l’ingestione, perché animali e uccelli marini ingeriscono frammenti di plastica scambiandola per cibo. L’ingestione può essere diretta oppure indiretta, ovvero attraverso la catena alimentare, o rete trofica (in pratica, “chi mangia chi” all’interno di un ecosistema). Questo accade quando un pesce piccolo ingerisce, ad esempio, dieci minuscoli frammenti di plastica, scambiandoli per cibo. Il pesce un po’ più grande mangerà cento pesci piccoli e insieme ad essi mangerà quindi mille frammenti di plastica. E così via, fino al nostro piatto. Anche l’uomo è tra le vittime dell’inquinamento da plastica: si stima che ingeriamo 5 grammi di plastica, equivalente al peso di una carta di credito, ogni settimana.
L’ingestione diretta di frammenti di plastica può causare la morte dell’animale per strangolamento, soffocamento, ferite provocate dall’abrasione, e per l’aumento del senso di sazietà, dovuto proprio alla presenza di plastica nello stomaco che non permette all’animale di percepire lo stimolo della fame e lo porta quindi a non alimentarsi. L’ingestione di plastica porta alla morte dell’animale anche per intossicazione: le caratteristiche fisiche della plastica, come la porosità, trattengono facilmente sostanze patogene e tossiche.
L’altro problema che la plastica e l’attività dell’uomo causano ai nostri animali marini sono le ferite o le morti per ferimento dovute alla pesca accidentale, alle eliche delle imbarcazioni, a particolari oggetti come lenze, ami, reti e altre attrezzature da pesca o altre plastiche molto resistenti, che si attorcigliano attorno agli animali ferendoli gravemente o uccidendoli.
L’insieme di questi fenomeni minaccia, secondo recenti stime, quasi 700 specie: il 17% di queste sono inserite nelle liste rosse degli animali in pericolo di estinzione, il 92% sono messe in pericolo dalla plastica e il 10% ha ingerito microplastiche. Tutto ciò mette in pericolo non solo l’intero equilibrio dell’ecosistema marino ma anche noi stessi. Infatti, i mari e gli oceani generano la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo. Siamo abituati a sentir parlare del polmone verde della Terra: le foreste. Ma nelle acque superficiali, raggiunte dalla luce del Sole, vivono migliaia di specie di microrganismi che producono il 50% dell’ossigeno del pianeta grazie alla fotosintesi clorofilliana: per ogni respiro che proviene dal polmone verde, un altro proviene del polmone blu.
Insieme con l’ossigeno, il mare ci fornisce anche nutrimento. Gli oceani rappresentano la più grande riserva di proteine al mondo, con più di 3 miliardi di persone che dipendono dagli oceani come risorsa primaria di proteine e dipendono dalla biodiversità marina e costiera per il loro sostentamento. A livello economico, il valore di mercato stimato delle risorse e delle industrie marine e costiere è di circa il 5% del PIL globale.
Gli animali più colpiti da questo problema sono gli uccelli marini, i delfini, le meduse, gli squali e le tartarughe marine. È stato stimato che una tartaruga marina su due, circa il 52%, ha ingerito plastica. Le tartarughe sono probabilmente le principali vittime poiché scambiano molto spesso frammenti di plastica per meduse, di cui si cibano.
Uno studio dell’Università della Florida Gainesville afferma che non sia soltanto la somiglianza a confondere l’animale, ma anche l’odore della plastica, che per le tartarughe marine è facilmente confondibile con quello del cibo. Un sacchetto di plastica ad esempio, può sembrare e odorare come una medusa, per questo motivo gli animali sono costantemente in pericolo. Questo succede anche perché una volta in acqua, la plastica viene colonizzata da microbi, alghe, piante e piccoli animali, che contribuiscono a modificare l’odore dell’oggetto, attirando le tartarughe e gli altri animali.
La tartaruga marina comune, la Caretta caretta, è una specie diffusa sia negli oceani che nel bacino del Mediterraneo e del Mar Nero. In particolare, nel Mediterraneo, i siti di deposizione delle uova sono localizzati soprattutto in Grecia, Turchia, Cipro, Libia e in Italia. In Italia la tartaruga marina sceglie come zone di nidificazione la Sicilia e la Calabria, sebbene siano state segnalate nidificazioni occasionali in altre regione del Sud Italia, fino ad Abruzzo, Toscana e Marche, quest’ultima, il luogo di deposizione più a nord del Mediterraneo.
Uno studio del WWF eseguito su oltre 560 tartarughe Caretta caretta, che vivono nel Mediterraneo centrale, ha mostrato la presenza di frammenti e resti di plastica nell’80% degli animali, e alcuni esemplari avevano ingerito fino a 170 frammenti. Anche per la tartaruga vale il problema dell’ingestione indiretta legato alla catena alimentare, poiché la medusa stessa, di cui si ciba, ingerisce plastica.
Per le tartarughe marine si presenta un ulteriore problema, oltre al rischio di ingestione e ferite. La presenza di plastica sulle spiagge può compromettere le nidificazioni, perché la sabbia in cui la tartaruga depone le sue uova, se in presenza di frammenti di plastica, non mantiene la stessa umidità e modifica la sua temperatura, con ripercussioni sullo sviluppo e sulla schiusa. La temperatura di conservazione delle uova, infatti, determina il sesso dei nascituri, perciò la presenza di rifiuti plastici, insieme al surriscaldamento globale, può sfasare il rapporto maschi-femmine e diminuire le probabilità di accoppiamento.
A causa di tutto questo, la Caretta caretta è diventata una specie fortemente minacciata e la IUCN Red List, la Lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, la classifica come specie vulnerabile. Questo significa che è una specie a rischio di estinzione in natura, per via delle attività dell’uomo come il turismo e la pesca accidentale, e dell’inquinamento da plastica. Soprattutto la pesca accidentale costituisce una delle principali minacce per questa specie, per via delle reti a strascico, degli ami dei palangari e delle reti fisse, dalle quali un gran numero di tartarughe viene catturato accidentalmente, causando la morte di più di 40.000 tartarughe l’anno.
Ogni anno nel Mediterraneo muoiono migliaia di esemplari, numeri che sono probabilmente sottostimati perché non tutti gli esemplari morti si depositano sulle spiagge, molte tartarughe affondano nelle profondità degli oceani. Una tartaruga marina passa il 96% del proprio tempo sott’acqua. Se pensiamo che ogni minuto l’equivalente di un camion pieno di rifiuti di plastica finisce nei mari di tutto il mondo, possiamo capire come la loro casa sia diventata un vero e proprio campo minato.
Non possiamo permettere che un animale di 280 di milioni di anni, sopravvissuto all’estinzione di migliaia di rettili, scompaia ora per colpa nostra. Ridurre la produzione e gestire meglio i rifiuti sono senz’altro le soluzioni fondamentali a livello globale, per evitare, tra trenta anni, di vedere soltanto bottiglie di plastica che nuotano nei nostri mari. Quello che possiamo fare noi per cercare di salvare più tartarughe marine possibile è aiutare i centri di recupero e supportare le loro attività per cercare di rallentare il rischio della loro estinzione.
Ne hanno fatto il loro simbolo e dedicano a lei il loro progetto “Adotta una tartaruga“: Plastic Free, l’associazione di volontariato nata nel 2019, con cui The Pitch collabora per sensibilizzare le persone sulla pericolosità della plastica monouso.
Plastic Free, oltre ad organizzare eventi di raccolta dei rifiuti in tutte le coste e in tutte le città d’Italia, ci da l’opportunità di contribuire a sostenere, recuperare, curare e riabilitare, in collaborazione con i centri specializzati, le tartarughe marine ferite dall’incuria dell’uomo. L’iniziativa permetterà a chiunque di adottare virtualmente una tartaruga così da poter fornire il proprio contributo all’acquisto di medicine necessarie alle cure, all’acquisto del cibo, all’acquisto del materiale necessario per il mantenimento delle strutture, al pagamento di interventi veterinari e al supporto di tutte le attività di monitoraggio dei nidi. Inoltre, coloro che adotteranno virtualmente una tartaruga riceveranno un Certificato di Adozione insieme ad aggiornamenti puntuali sullo stato della tartaruga adottata. Basta andare sulla pagina progetti del loro sito internet plasticfreeonlus.it: bastano pochi secondi per fare molto.