“Un dignitoso semicerchio di donne della società per le quali la cultura rappresentava una specie di banca del sangue: erano venute per una trasfusione.”
Lawrence Durrell, Justine
Chiara Ferragni agli Uffizi è un sintomo del problema e non la malattia.
Per questa ragione la sincopata baruffa online sul ruolo di questa provincialissima influencer nel promuovere la cultura è sterile, fuori fuoco e perversamente comica.
Ciò che però non diverte affatto è notare come istituzioni museali, critici d’arte e addirittura importanti testate giornalistiche – che dovrebbero essere i soggetti ideali in grado di far nascere una discussione competente sull’attuale sistema museale, sul problema della fruizione in epoca ipertecnologica, sullo scarso interesse dei giovani per l’arte – si limitino invece a cavare dal cappello articoli moralistici che bacchettano gli hater della Ferragni. La discussione che ne scaturisce è un antipatico carosello, più vicino al gossip, per forma e per contenuti, che al dibattito culturale.
Siccome della Ferragni non se ne può proprio più, spostiamoci dal sintomo alla malattia. Il nocciolo della questione è infatti molto più complesso di quanto non sembri e abbraccia ogni ambito della società in cui stiamo vivendo, non solo quello museale.
La catastrofe annunciata verso cui ci stiamo muovendo parte dal tentativo di emulazione di un modello angloamericano in cui tutto deve essere visto in una logica aziendalistica e competitiva: ogni campo deve poter essere studiato e calcolato secondo rigidi parametri predefiniti come ad esempio – per usare termini del management museale – l’efficacia e l’efficienza. Tradotto: l’abilità di raggiungere il massimo spendendo il minimo. Un parametro eccelso per giudicare l’arte che, per definizione, è un gioco a perdere, uno spreco di risorse, una Dépense, per citare il buon Bataille. Le analisi quantitative si susseguono e definiscono la virtuosità di un’istituzione museale, la sua resa, la sua capacità di competere.
Se ci pensiamo, ormai, ogni istituzione “culturale” sta andando verso questa direzione: le università situano volentieri le loro ricerche in ambiti di studi à la page (vedi gender studies, media studies, post colonial studies). Le ricerche in questi ambiti, utili a docenti, ricercatori e dottorandi per farsi strada nel bellum omnium contra omnes delle accademie contemporanee, si riversano sulla didattica. Il risultato? Gli studenti partecipano allo stato dell’arte delle ricerche, senza sfiorare la tradizione, il percorso storico della disciplina. Prova pure a cercare in un dipartimento di filosofia un corso storiografico dedicato a Goethe, non lo troverai. In compenso, con tutta probabilità, troverai il profilo instagram della tua biblioteca. Non hai trovato il corso su Goethe, allora vai pure a fare yoga al Museo di Capodimonte. Fuffa, accattivante fuffa, quantificabile fuffa.
Emblematico di questo tipo di pensiero è l’atteggiamento che ha avuto lo Stato nei confronti delle librerie e delle biblioteche post-covid: le prime, in virtù del loro potenziale economico, sono state i primi esercizi commerciali ad aprire durante il lockdown (avendo anche la sfacciataggine di farlo passare come un atto culturale sinistrorso), mentre la maggior parte delle biblioteche, che di monetario e commerciale non hanno niente, data la natura essenzialmente gratuita del servizio che offrono, faticano ancora oggi a riaprire. Le librerie sì, le discoteche sì, le biblioteche no. Perché? Perché uno studioso di tafonomia non permette all’economia di girare, e della sua tesi sulla cerificazione dei vegetali non ce ne frega un cazzo, mentre lo zarro che va in una discoteca di Milano Marittima spende almeno 30 euro per l’ingresso e un drink annacquato.
La cultura oggi ha bisogno di poter essere compressa nei libri contabili in entrate ed uscite, di essere competitiva, di essere tecnologica, di guardare al futuro e di sapersi reinventare per agganciare il pubblico: niente di più lontano da ciò che la cultura dovrebbe essere.
Esplicativo a questo riguardo è un articolo su Artribune dal poetico titolo “Social network economy. Musei, follower e partecipazione” in cui viene citato un passo del libro di tal H. Steyerl che scrive: “La storia esiste solo se c’è un domani. E di converso il futuro esiste solo se al passato viene impedito di filtrare permanentemente nel presente. I musei hanno meno a che fare con il passato che con il futuro”.
Come commentare? “La storia esiste solo se c’è un domani”, vero, ma un domani c’è solo se c’è una storia. Steyerl sentenzia con mirabile rapidità l’ideologia contemporanea che contamina le istituzioni museali: dimentica che la conservazione consiste proprio nel regalare un luogo, un pezzo di mondo, a qualcosa che non appartiene più alla nostra realtà quotidiana, al gusto corrente, alle mode vigenti. I musei devono garantire la sopravvivenza a dei mirabili frammenti del passato che, se non fossero tutelati, resterebbero inerti e inutili, come una lingua dimenticata. Ciò che dice Steyerl – una singola voce di un coro ben pasciuto di autoproclamati “realisti” – è a suo modo anche anticostituzionale, dato che gli obbiettivi di un’istituzione museale ancora oggi sono descritti dall’articolo 1 del Codice dei Beni Culturali come “tutela e valorizzazione del patrimonio culturale che concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”.
In questa ottica agghiacciante vengono ovunque citate, con i relativi futili piagnistei i risultati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali che monitora la presenza dei musei italiani sui social. Il risultato, a quanto pare molto negativo, mostra che solo il 52 % dei musei ha un account Facebook, Instagram o Twitter. Mi dovete spiegare come è possibile pensare che il problema degli istituti museali italiani risieda nella scarsa partecipazione di quest’ultimi ai social network. Un museo non dovrebbe avere i social network. Non deve apparire, non deve competere, non dovrebbe possedere dei follower: è un museo! È come se chiedessimo al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli di Milano di mostrarci su Instagram la qualità dei propri medici o se cercassimo la scuola elementare più adeguata a nostro figlio scrollando le pagine Facebook delle scuole.
Un museo non può e non dovrebbe essere soggetto alle mode e non dovrebbe essere influenzato da logiche di mercato che sono estranee alla natura intrinseca del luogo: quella espositivo-culturale. È proprio a partire da questa concezione deviata di che cosa dovrebbe essere un museo, che istituzioni come gli Uffizi urlano al miracolo dopo l’aumento degli ingressi dovuto alla visita della Ferragni: ben 761 giovani in più rispetto al week end precedente! Wow che incredibile successo culturale!
È ovvio che nella loro logica ragionieristica l’aumento della vendita di biglietti sia un traguardo di cui vantarsi (vedi logica efficienza-efficacia di cui prima) senza fermarsi a pensare che porre la questione in tali termini sia dannoso, non solo per il museo in sé, ma per tutto l’apparato culturale di cui fa parte e che rappresenta.
È una sconfitta su tutta la linea: il numero di biglietti staccati non è un parametro di giudizio valido per misurare o giudicare l’operato di un museo. Ma nel museo-azienda la quantità batte la qualità: chissenefrega se i 761 ragazzini che sono entrati agli Uffizi ci sono andati solo per farsi i selfie davanti agli stessi quadri della Ferragni, per poi uscire, senza neanche badare a dove fossero – tanto hanno pagato il biglietto.
Il problema della scarsa affluenza dei giovani nei musei è particolarmente sentito in ambito istituzionale ma non può essere risolto mettendo il faccione di un personaggio famoso davanti a un quadro di Botticelli, sperando che il semplice spirito di emulazione funzioni (il bello è che funziona, ma ciò che viene emulato è l’atteggiamento del personaggio di turno: le opere d’arte in questi casi diventano meste scenografie per un’autocelebrazione mimetica).
Con questo non si vuole promuovere un modello elitario dell’istituzione museale, ma ricordarne le priorità e le prerogative: lo studio, la ricerca, la conservazione e la divulgazione. Se quest’ultimo aspetto dovesse mancare, non sarebbe una tragedia: sono molti i musei che si occupano di salvaguardare artefatti di scarsissimo interesse popolare. Se il nostro giudizio si basa sul numero staccato di biglietti, cosa dovrebbe fare il Museo Archeologico di Napoli? Chiudere perché a pochi interessano i capitelli romani o perché ha pochi follower su instagram? E il museo del merletto di Burano deve chiamare Bono Vox per sperare in un aumento dei visitatori?