Ci sono Stati che sembrano aver inscritto nel loro Dna un “destino manifesto”, tendente all’universalismo. Ad altre invece la storia, la posizione geografica e giochi di entità più grandi paiono precludere la possibilità stessa di vedere la luce. Se la Polonia fu per quasi due secoli preda degli appetiti delle potenze dell’Europa centrale – tanto da subire tre diverse spartizioni nella seconda metà del XVIII secolo e una, sanguinosissima, negli anni Trenta del Novecento – ma può dirsi oggi uno stato a tutti gli effetti, lo stesso non si può dire del Kurdistan.
Non è possibile comprendere la vicenda curda senza inquadrarla all’interno del più ampio contesto della Questione Orientale e senza riavvolgere il nastro fino ad arrivare alla causa profonda di gran parte degli attuali sommovimenti nella regione. I prodromi dell’agonia della Sublime Porta erano all’attenzione del concerto delle potenze occidentali già da molto tempo prima della I guerra mondiale, precisamente dalla guerra di Crimea (1853-56). Francia e Gran Bretagna – con l’ausilio di un piccolo contingente piemontese – aiutarono l’agonizzante Impero Ottomano a sconfiggere la potenza zarista. L’obbiettivo era bloccare la secolare propensione russa a cercare uno sbocco sui cosiddetti “mari caldi”, nello specifico il Mar Nero, collegato al Mediterraneo. È questo il Grande gioco che per un secolo avrebbe deciso le sorti dell’area del mondo che dal Medio oriente arriva in India e che si sarebbe concluso solo con l’accordo anglo-russo del 1907.
Medio oriente è la definizione occidentale per indicare la regione al centro di questo crocevia di interessi geopolitici. In mezzo alla regione si staglia un vasto altopiano – poco più piccolo dell’Italia – compreso tra l’Anatolia e la Mesopotamia: il Kurdistan. La sua ragion d’essere si è scontrata storicamente con l’ingerenza di tre imperi regionali (prima quello persiano, poi quello ottomano, infine quello russo) e due coloniali, quello francese e quello britannico. Potenze europee oggi rimpiazzate dal nuovo gendarme globale americano, con i tre attori regionali a recitare ancora – nonostante abbiano cessato le loro spoglie imperiali – un ruolo primario nel grande gioco curdo.
Per Grande gioco si intende il conflitto, militare e diplomatico, che contrappose Impero britannico e russo in Medio oriente e Asia centrale per tutto il XIX secolo. L’espressione fu coniata nel 1829 dall’ufficiale dell’esercito britannico Arthur Conolly e ripresa dallo storico inglese Peter Hopkirk, nel famoso romanzo omonimo del 1990. I russi preferiscono invece utilizzare la definizione “Torneo delle ombre”.
In principio fu il crollo dell’Impero ottomano, dicevamo. Per secoli i curdi – gruppo etnico iranico a larga maggioranza sunnita e quindi esenti, in quanto musulmani, dal pagamento delle tasse – furono inquadrati tra le truppe del Sultano per svolgere i compiti più disparati, non ultimo quello di scortare verso sud gli armeni nella lunga marcia della morte tra le zone desertiche dell’Anatolia, come viene puntualmente ricordato all’interno del memoriale del genocidio nella capitale armena Yerevan. Un scelta di fatto obbligata, dettata anche dalla speranza per i curdi di ottenere in cambio futuri riconoscimenti territoriali.
La conformazione tribale ha costituito più volte motivo di scontri interni alla stessa comunità curda, troppo spesso considerata all’esterno un monolite vittima dell’esasperato nazionalismo turco. A temprare lo spirito curdo ha contribuito notevolmente la posizione geografica: un crocevia di limes a cavallo di Caucaso, Persia e Arabia. Avamposto che gli ottomani prima e la giovane repubblica turca poi non potevano perdere. Trovandosi in un’area di frontiera i curdi venivano spesso utilizzati per equilibrare i giochi tra le potenze europee nell’area, soprattutto verso la Persia. Il primo grande tradimento subito dalla mai nata nazione curda è avvenuto dopo la Grande guerra, a opera della neo costituita Repubblica turca (nata nel 1922).
Sulla scia della Entente cordiale del 1907, furono un britannico ed un francese a decidere le sorti dell’area mediorientale: l’esperto britannico Marc Sykes e il console francese a Beirut George Picot. L’accordo che seguì, chiamato formalmente Asia Minor Agreements, prevedeva una ripartizione territoriale per zone di influenza ipotizzando soluzioni per l’amministrazione delle aree a maggioranza araba. Il trattato che diede finalmente voce alla nazione curda fu però quello di Sèvres del 1920, anche ben presto le pretese furono cancellati dagli interessi europei e da quelli della neonata repubblica turca. Motivo per cui il trattato non venne ratificato: non si poteva far nascere uno stato che avrebbe ridimensionato le aree di influenza europee e che non avesse una continuità diplomatica con uno precedente. Le popolazioni curde vivevano in un’area troppo estesa per permettere la nascita di un soggetto unitario senza l’appoggio di una grande potenza.
A sancire la fine del sogno curdo fu il trattato di Losanna del 1923, considerata una vittoria diplomatica del Padre della nuova Turchia: Mustafa Kemal. Ataturk rigettò il trattato di Sèvres e dopo quasi due anni di trattative ottenne il riconoscimento della nuova Repubblica, rinegoziando i punti cruciali che riguardavano le minoranze armena e curda. Preclusa la possibilità di ottenere uno stato, i curdi iniziarono a reclamare più autonomia alle potenze che amministravano i loro territori: solo quelli che vivevano in Siria riuscirono a ottenerla dai francesi tanto da diventare, a cavallo tra le due guerre mondiali, un territorio di immigrazione dalle regioni turche e irachene dove avvenivano continue repressioni nei confronti dei loro connazionali.
La stagione di decolonizzazione che seguì la Seconda guerra mondiale li vide stretti nella morsa non solo della Turchia ma anche delle nascenti potenze regionali arabe: in Siria non venne loro riconosciuto lo status di cittadini e i partiti indipendentisti vennero dichiarati fuorilegge con l’accusa di ambire alla secessione. Lo stesso accadde in Iraq, dove l’unica risposta del partito Baath fu un’ondata di repressioni e deportazioni. Parallelamente in Turchia proseguì la politica kemalista di turchizzazione dei curdi, con un mix di migrazioni forzate e riforme scolastiche tese a cancellarne l’eredità culturale. Provvedimenti che non hanno diminuito, ma anzi hanno incoraggiato lo spirito di rivalsa di questo popolo.