Tifare Espanyol è come scegliere Sarajevo nei ’90,
quando si potrebbe avere un attico con vista sul Sacre Coeur
Robert Basic
Chissà cosa avrà pensato Raùl Tamudo il 9 luglio 2020, quando Luis Suarez ha portato in vantaggio i blaugrana nel derbi català. La rete del centravanti uruguaiano ha posto la pietra tombale su una tragedia annunciata da ormai qualche settimana: dopo 26 anni di onoratissimo servizio l’Espanyol, impossibile non considerarla la seconda squadra di Barcellona, è ufficialmente retrocesso in seconda divisione. Una stagione cominciata con altri propositi, basti pensare che i blancoazul, esattamente un anno fa, svolgevano una preparazione estiva per prepararsi al doppio impegno. Infatti, dopo oltre un decennio, il club era tornato a giocare una competizione europea, l”Europa League, erede di quella Coppa Uefa che l’Espanyol andò vicinissimo a vincere in due occasioni. Nel 1988 e nel 2007 soltanto una doppia serie di maledettissimi rigori si intromise tra il club catalano e il sogno del primo, storico, titolo continentale. Ma come ha fatto una squadra a transitare dalla qualificazione europea all’incubo della retrocessione?
Innanzitutto il timoniere della rosa dello scorso anno, ovvero mister Rubi, strappato il pass europeo ha fatto le valigie per cercare fortuna a Siviglia (sponda betica), senza però riuscirci, venendo esonerato a poche giornate dalla fine della Liga, al termine di una stagione tutt’altro che esaltante. A proposito di allenatori, quelli susseguitosi sulla panchina del club catalano durante l’arco di quest’annata fallimentare sono stati addirittura quattro: David Gallego, Pablo Machin, Abelardo e Francisco Rufete. Un’enormità che rende l’idea della confusione e del caos regnanti all’interno di uno dei club più importanti di Spagna, il quarto come numero di partecipazioni alla Liga, dietro solamente al Real, all’Athletic e, chiaramente, ai cugini blaugrana.
Nel luglio del 2019, insieme a Rubi, si è accasato al Betis anche il capocannoniere della scorsa stagione, ovvero Borja Iglesias, giovane e talentuoso centravanti dell’Under-21 spagnola. Il centrale difensivo Mario Hermoso, invece, ha preso la direzione di Madrid, scegliendo l’Atletico di Simeone per il proseguo della sua carriera. Le ultime campagne acquisti dell’Espanyol non sono state certamente scoppiettanti, eppure, come vedremo in seguito, le ambizioni della giovane proprietà del club di Barcellona facevano pregustare ai tifosi (pochi, stando a statistiche recenti solamente il 4% dei catalani tifa blancoazul) annate maggiormente esaltanti. La qualificazione ai gironi di Europa League non ha portato la dirigenza ad allestire una rosa per gestire il doppio impegno, il campionato e la Coppa europea. Paradossalmente, ma tutta questa storia d’altronde è un gigantesco paradosso, l’Espanyol ha vissuto gli unici momenti memorabili della stagione durante la campagna europea. I biancoazzurri hanno superato brillantemente il girone di Europa League (spicca in tal senso una netta vittoria per 6-0 contro il Ludogorets), nonostante fin dalle prime giornate abbiano occupato gli ultimi posti del campionato spagnolo. Rotta che nessuno dei quattro allenatori del club è riuscito ad invertire durante l’arco della stagione, così a luglio 2020 è arrivato il verdetto ufficiale: Segunda División.
I social network dell’Espanyol annunciano ai tifosi (o, ahimé, semplicemente ai follower) le formazioni, le liste dei convocati, i trasferimenti e i risultati finali delle partite utilizzando addirittura quattro lingue. La prima è ovviamente il català, seguita dal castillano e poi dall’immancabile inglese. C’è spazio però, anche, per il mandarino. Ma come mai il social media manager del club è obbligato a scrivere utilizzando gli ideogrammi cinesi? Perché il secondo club di Barcellona ha così tanti follower a Pechino e dintorni? L’Espanyol nel 2015 è stato acquistato dal magnate Chen Yansheng (e dalla sua Rastar Group), che ha deciso di investire nel calcio europeo come molti connazionali. Le promesse della nuova proprietà apparvero fin da subito trionfalistiche e alquanto azzardate: “In tre anni giocheremo la Champions League”, oltre a continue voci di una possibile quotazione in borsa del club.
A gennaio del 2019 la dirigenza blancoazul ha piazzato un colpo di (calcio?)mercato apparentemente straordinario, squisitamente per ragioni di marketing. La star Wu Lei, ventisette anni, si è trasferito dal Shangai SIPG all’Espanyol sul finire del calciomercato invernale. Inutile sottolineare come la vendita delle camisetas (sorry, t-shirt) biancoazzurre di Wu Lei in Asia sia impennata di colpo, raggiungendo presto la cifra di cinquemila magliette vendute in una settimana. Spostando l’attenzione sul campo, l’impatto del centravanti con il calcio europeo è stato ottimo, tant’è che si è cominciato a pensare che l’acquisto del più forte calciatore cinese in attività fosse stato un affare anche da un punto di vista strettamente sportivo. L’involuzione vissuta da Wu Lei è andata di pari passo con quella del club e ad oggi, con l’Espanyol in Segunda División, non sembra esserci la fila di pretendenti per il centravanti asiatico.
La storia recente dell’Espanyol, figlia di un mondo (del calcio e non) eccessivamente globalizzato si scontra con la storia centenaria del club, che al contrario fonda le sue radici in Catalunya. Il “Mès que un club” dell’FC Barcellona è arcinoto, mentre il motto dell’altra metà della capitale catalana (che, ovviamente, non è l’esatta metà numerica) è molto meno celebre, ma anch’esso delinea perfettamente l’ideologia del clùb: maravillosa minoria, meravigliosa minoranza. È lecito chiedersi come si possa tifare Espanyol a Barcellona. Da una parte c’è una squadra ricca, bella, piena di campioni, conosciuta in tutto il mondo non soltanto dagli appassionati di calcio e, oltretutto, nella sua storia ha mostrato spesso e volentieri caratteristiche affascinanti. L’Espanyol invece rappresenta la perfetta antitesi all’universo blaugrana: squadra povera, senza fuoriclasse, apprezzata solamente dai calciofili incalliti e, soprattutto, si porta dietro una storia poco seducente.
Il Real Club Deportivo Español nasce nel 1900 e già dal nome si evince la precisa vocazione di allargare i propri confini aprendosi a tutta la penisola iberica. Infatti il nome originale del club è in castillano: Español scritto come è d’uopo nella lingua di Cervantes. Nel 1995, quasi un secolo dopo la fondazione, su precisa richiesta della dirigenza dell’epoca, il club acquisisce la denominazione catalana, diventando Espanyol con la Y, che può apparire un dettaglio da poco, ma, a queste latitudini, certamente non lo è. La squadra oltretutto è sempre stata Real (Reial in catalano) e a all’ombra della Sagrada familla ciò è qualcosa che va tenuto sempre in considerazione. Per questo motivo, oltre che per meri dati statistici, l’universo blancoazul può definirsi perfettamente una minoria, che poi essa sia maravillosa (o meravellosa) dipende chiaramente dai punti di vista. D’altronde, se si è filomonarchici e filofranchisti nella città simbolo dell’indipendentismo e dell’opposizione alla dittatura, è naturale restare in disparte e ottenere molta poca considerazione.
Ci sono momenti però in cui una minoranza può finalmente prendersi la rivincita.
La stagione 2006/07 del calcio spagnolo è sportivamente drammatica. A due giornate dal termine, tre squadre possono ancora vincere il titolo: il Siviglia di Juande Ramos, il Real Madrid di Fabio Capello e il Barcellona di Frank Rijkaard. Gli andalusi hanno appena conquistato la seconda Coppa Uefa della loro storia e non vanno oltre lo 0-0 sul campo del Mallorca. Il Real si gioca le chanches di vittoria del campionato in trasferta alla Romareda di Zaragoza. Al Nou Camp va in scena l’ennesimo derbi català e la squadra di Rijkaard deve vincere assolutamente per mantenere intatte le speranze di titolo. L’Espanyol arriva da un momento molto complicato: qualche giorno prima ha perso ai rigori la finale di Coppa Uefa proprio contro il Siviglia. I giocatori sono chiaramente abbattuti, la stagione per molti è già finita dato che la squadra non ha più nulla da chiedere al campionato. La squadra si stringe attorno al proprio capitano, Raul Tamudo. C’è un record che spiega perfettamente come Tamudo sia un calciatore speciale: è il miglior marcatore catalano della storia del campionato spagnolo. Minuti giocati con il Barcellona? Zero. In compenso ha segnato 129 gol con la maglia dell’Espanyol.
Il Real Madrid fatica più del previsto in terra aragonese e viene colpita due volte dal centravanti avversario, nientemeno che el principe Milito. Mancano pochi minuti e la partita di Zaragoza si sta trasformando in un inferno per i tifosi madrileni, anche perché il Barcellona nel frattempo conduce il derby 2-1. Raul Tamudo nel primo tempo ha illuso i propri tifosi, ma i blaugrana hanno presto rimontato la partita. Dagli spalti del Camp Nou i tifosi del Barça cominciano a cantare “campeones, campeones”. Ma non è ancora finita. C’è tempo per un ultimo sussulto. Il pareggio del miglior marcatore catalano di sempre passa alla storia del calcio iberico come “El Tamudazo”. Raul Tamudo a cinque minuti dalla fine firma la sua doppietta personale. Il derbi català finisce in parità, ma c’è un chiaro vincitore oggettivo, infatti a 90 minuti dalla fine del campionato il Real Madrid si conferma capolista e agguanterà il titolo la domenica successiva. I tifosi dell’Espanyol lo sanno bene: il nemico del mio nemico, almeno in questo caso, è un mio amico. E loro gli hanno fatto un grandissimo favore.
Come si è detto, con la vittoria nell’ultimo derbi català, il Barcellona ha condannato alla retrocessione i rivali cittadini. Messi e compagni, però, hanno vissuto, fino a questo momento, una stagione deludente. Anch’essi, come i cugini, avevano altre aspettative l’estate scorsa, quando fecero sfilare al Nou Camp nientemeno che De Jong e Griezmann, aggiungendo due ulteriori fuoriclasse a una rosa già di per sé straordinaria. Vedendo il Real Madrid di Zidane impadronirsi della Liga spagnola dopo tre anni di digiuno, ha fatto storcere il naso ai tifosi blaugrana e il vedere i cugini dell’Espanyol sprofondare verso il baratro non ha funzionato da palliativo.
Troppa differenza tra i due club per poter gioire, a partiti invertite, delle disgrazie altrui.