L’industria dei videogiochi ha un problema storico.
Il termine non è inteso nel senso di “esiste un problema che è presente dalla nascita dei videogiochi”, per quanto ci siano moltissimi spunti anche su di quello (lo sfruttamento dei lavoratori, l’uso di trucchi psicologici e assuefazione, i giochetti fiscali, senza menzionare i vespai causati da abusi, misoginia e problemi annessi). L’industria dei videogiochi ha un problema storico nel senso stretto del termine: è un settore che tende a ignorare la sua storia, focalizzandosi quasi sempre su presente e futuro e limitando gli sguardi al passato solamente a specifici franchise e serie da sfruttare per occasionali re-release (rimessa in vendita di giochi passati) o reboot (rifacimento di una proprietà intellettuale mantenendo lo stesso nome).
Lo scopo di questa rubrica è analizzare l’industria dei videogiochi da un punto di vista comprensivo, evidenziando i suoi momenti più importanti sia presenti che passati; per farlo è necessario porre delle basi che contestualizzino il settore. È per questo motivo che si apre con la storia del Crash dell’83, forse il più importante evento nella storia dei videogiochi, di sicuro uno dei meglio documentati. Se ne parla spesso come di uno spartiacque, e non senza motivo: c’è un pre-83 e un dopo-83 nei libri di storia videoludica che non separa solo trend e prodotti, ma anche intere dinastie e imperi nati e caduti a causa di questo evento.
Ma andiamo con ordine. Cos’è un crash? Un crash è un tracollo quasi totale di un intero settore, l’esplosione di una bolla economica che mette in ginocchio un’intera parte di mercato. In questo caso, come per ogni crash che si rispetti, non si può isolare la causa a un solo elemento scatenante; una goccia ha fatto traboccare il vaso, ma qualcuno lo aveva riempito in precedenza. E lo aveva riempito di prodotti: l’inizio degli anni ’80 vedeva sfidarsi Odyssey2, Intellivision, ColecoVision, Coleco Gemini, Atari 2600, Atari 5200 (console dello stesso manifattore in competizione tra loro) e molti altri modelli che facevano sembrare la sfida Nintendo/Sony/Microsoft di oggi una discussione amichevole.
Ognuna di queste console offriva decine se non centinaia di titoli, all’epoca così semplici da poter essere sviluppati da un singolo programmatore in poche settimane. Un singolo programmatore spesso sovraccaricato di lavoro e con molta poca esperienza, in un mondo in cui il concetto stesso di game design era ancora in divenire, per un pubblico molto inflazionato – i giochi erano comprati dai genitori per i figli, principalmente, e la qualità non era tra le considerazioni principali. Tra i fattori principali spiccava invece la licenza, cioè quale nome famoso da acquistare per attirare l’attenzione del pubblico.
Questo senza considerare il nascente mercato dei personal computer di massa, che all’epoca iniziava a muovere i primi passi. Computer che diventavano sempre meno costosi, e che potevano essere utilizzati anche per motivi ben diversi dal semplice giocare. Computer che, come la peste coi ratti di Parigi nel 1300, portavano con sé qualcosa che avrebbe sconvolto completamente gli equilibri dell’epoca: il floppy disk.
Introdotto negli anni ’70 e reso sempre più capiente e più compatto, questo piccolo dischetto fece partire un focolaio che divorò l’intera industria. Il motivo richiede una premessa: creare un videogioco era un processo complesso, che passava anche attraverso un passaggio industriale – la produzione e distribuzione delle cartucce, di formato proprietario e dalla costruzione relativamente complessa, che limitava non solo chi poteva distribuire ma anche chi poteva creare videogiochi.
Con l’arrivo dei floppy disk il processo si liberalizzò: chiunque poteva stampare, copiare, modificare e distribuire un gioco, su apparecchiature all’epoca molto meno costose delle console stesse. Questo non solo moltiplicò ulteriormente l’offerta di prodotti, ma creò un intero mercato alternativo che minò ulteriormente il mercato delle aziende già stabilite. È un’evoluzione sentita ancora oggi – le stesse cartucce usate da Nintendo nei suoi sistemi sono più costose e difficili da produrre dei dischi Blu-Ray delle aziende concorrenti, in questa generazione di console che volge al termine.
Insomma, si erano create le condizioni perfette per una bolla: una offerta estremamente sovradimensionata rispetto al mercato, formato da un prodotto sovrapprezzato, dalla qualità spesso estremamente bassa e in procinto di essere attaccato da un mercato sostitutivo con un costo di ingresso ridicolmente più basso, se non interamente gratuito.
Come è stato menzionato, è un evento estremamente ben documentato. Nonostante la credenza popolare consideri il semi-leggendario E.T. The Extraterrestrial come la causa scatenante, Steven L. Kent, in The Ultimate History of Video Games, identifica la data precisa dello scoppio della bolla nel 7 dicembre del 1982. Più che tragico, l’evento è patetico nella sua capitalistica banalità: in quella giornata Atari pubblicò la regolare previsione di crescita delle vendite, assestandola tra il 10 e il 15%. Un aumento nient’affatto male, se solo l’azienda non avesse passato l’anno a fare programmi basati su un aumento del 50% e se il suo CEO non avesse di nascosto venduto 5.000 azioni prima dell’annuncio.
Il grafico presentato da Dvorchak nel Times-News del 30 luglio ’89 è impietoso. Dire contrazione non rende l’idea: alla fine del 1985 il mercato videoludico si era ridotto del 95% rispetto al picco di due/tre anni prima, un’intera industria era stata decimata e pile e pile di giochi invenduti riempivano scaffali che nessuno visitava più. Bastarono pochi anni o addirittura pochi mesi per capire che ci si trovava a cavallo tra due epoche diverse, e molti analisti decretarono che l’intera industria aveva i giorni contati.
Eppure a oggi sono già parecchi anni che l’industria dei videogiochi supera quella del cinema in tutto il mondo. Com’è stata possibile una ripresa del genere? Il motivo non è da cercare nel devastato mercato americano; come suggerisce lo stesso grafico qui sopra la rivoluzione arrivò da Oriente, e arrivò grazie quasi unicamente a una sola azienda.
Nel prossimo articolo parleremo di inversioni di tendenza, di diverse prospettive culturali e di come un piccolo produttore di mazzi di carte di Kyoto abbia preso il controllo quasi di un intero settore grazie a una strategia rischiosissima e a un piccolo idraulico baffuto.