«La missione principale era liberare il Venezuela e catturare Maduro, ma la missione a Caracas è fallita».
Il 4 maggio scorso il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato che il suo governo aveva fermato un assalto “terroristico” contro il suo paese.
Il giorno prima l’esercito venezuelano ha teso un’imboscata a un manipolo di invasori arrivati dal mare – qualche decina di venezuelani e due “combattenti per la libertà” statunitensi che volevano rovesciare il governo del paese.
Un avvenimento che ha portato giornalisti e osservatori politici a paragonare l’operazione a quella della baia dei Porci, il tentativo disastroso d’invadere Cuba con il sostegno della Cia (l’agenzia d’intelligence degli Stati Uniti) nell’aprile del 1961.

«Prima dell’invasione la rivoluzione era traballante. Ora è più forte che mai».
Qualche mese dopo, durante una conferenza regionale a Punta del Este, in Uruguay, Ernesto “Che” Guevara, ringraziò l’inviato di Kennedy, Richard Goodwin, per l’attacco alla baia dei Porci.
La sconfitta, dopo tre giorni di combattimenti che provocarono almeno trecento morti, di 1.400 esuli cubani e una manciata di agenti statunitensi da parte dell’esercito di Fidel Castro, ebbe enormi conseguenze a due anni appena dal trionfo della rivoluzione cubana. “Baia dei Porci” diventò sinonimo di operazione segreta fallimentare, Castro umiliò il presidente degli Stati Uniti appena eletto, John Fitzgerald Kennedy: sconfiggendo il suo esercito per procura, mettendo alla berlina i prigionieri in una serie di processi spettacolo trasmessi in tv, infine costringendo il governo degli Stati Uniti a pagare un riscatto di 53 milioni di dollari (equivalenti a quasi mezzo miliardo di oggi) in viveri e medicine per liberarli. Quell’invasione fallita convinse il premier sovietico Nikita Chruščëv che alla Casa Bianca c’erano dei novellini, al punto da cominciare a spedire testate nucleari a Cuba, installate in segreto e puntate contro alcune città statunitensi. Nell’ottobre del 1962 con la crisi dei missili di Cuba il mondo scampò dal baratro di una guerra nucleare, ma per gli Stati Uniti non fu una completa vittoria. In cambio del ritiro dei missili sovietici da Cuba, Washington rinunciò alle sue basi per i missili Jupiter in Turchia e s’impegnò a desistere da qualsiasi altro progetto d’invadere Cuba.
L’accordo diede a Castro lo spazio che gli serviva per trasformare l’isola in uno stato comunista e sbeffeggiare Washington per i successivi cinquant’anni.

Il disastro sulla spiagge venezuelana di un mese fa, chiamata operazione Gideon, potrebbe essere stata una versione ridotta di quell’evento epocale. Un diplomatico statunitense l’ha definita una “baia dei Porcellini”.
Come la baia dei Porci era stata preceduta da due anni di interruzione dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Cuba, così dal 2017 l’amministrazione del presidente Donald Trump alimenta le tensioni con il governo di Maduro, usando una retorica bellicosa e imponendo sanzioni economiche. A gennaio del 2019 Trump ha riconosciuto il leader dell’opposizione Juan Guaidó, che presiede l’assemblea nazionale, come presidente ad interim del Venezuela. Tre mesi dopo ha appoggiato il suo tentativo, fallito, di provocare un’insurrezione dell’esercito. A febbraio Trump ha ricevuto Guaidó alla Casa Bianca trattandolo come un capo di stato e, durante il discorso sullo stato dell’unione alla camera, lo ha ringraziato pubblicamente. Negli scorsi giorni ha detto che non era a conoscenza del tentativo d’invasione organizzato da Jordan Goudreau, un cittadino statunitense, ex berretto verde, veterano delle guerre in Afghanistan e in Iraq e proprietario della Silvercorp.

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A più riprese Goudreau ha dichiarato che Guaidó sapeva del suo progetto. Ha anche mostrato un documento che il leader dell’opposizione venezuelana avrebbe firmato nell’ottobre del 2019, in cui gli prometteva circa 213 milioni di dollari in cambio della destituzione del presidente Maduro. Guaidó ha negato ma il suo rappresentante negli Stati Uniti, Juan José Rendón, uno stratega politico venezuelano in esilio, ha ammesso che la propria firma, visibile sul documento accanto a quella di Guaidó, è autentica e che qualche mese fa aveva versato a Goudreau 50mila dollari come anticipo sulle spese. Sul documento c’è anche la firma di un altro collaboratore di Guaidó, il deputato Sergio Vergara. L’11 maggio sia Rendón sia Vergara si sono dimessi dai loro incarichi.

Guaidó invece non si dimetterà e Maduro non lo farà arrestare, per il semplice motivo che è protetto da Trump.
A maggio del 2019 il segretario di stato statunitense, Mike Pompeo, ha dichiarato che Washington non escludeva un’azione militare contro il Venezuela. E in molti comunicati successivi, Pompeo e altri funzionari hanno continuato a fare pressione affermando che “tutte le opzioni sono sul tavolo”.

Intanto, i due statunitensi arrestati, entrambi ex membri delle forze speciali, sono apparsi alla tv venezuelana e hanno ammesso il ruolo svolto nell’operazione Gideon, che comprendeva diversi mesi di addestramento militare di un gruppo di esuli venezuelani in una zona isolata della Colombia. Uno dei due, Luke Denman, ha dichiarato che il loro obiettivo era catturate il presidente Maduro e che Trump era al corrente dell’operazione. L’altro, Airan Berry, ha affermato che lo scopo della missione era portare Maduro fuori dal Venezuela, “con tutti i mezzi necessari”. Pompeo ha smentito qualsiasi forma di complicità diretta degli Stati Uniti nell’operazione, assicurando ai giornalisti che “se noi fossimo stati coinvolti, le cose sarebbero andate diversamente”. Trump ha specificato: “Se mai facessimo qualcosa contro il Venezuela, non la faremmo così, sarebbe una vera invasione”.

Donald Trump e Juan Guaido nello Studio Ovale della Casa Bianca il 5 Febbraio 2020 – Official White House Photo by Shealah Craighead / Flickr

Goudreau sostiene di aver chiesto l’appoggio dell’ufficio del vicepresidente Mike Pence, che però dichiara di non conoscerlo. Effettivamente Goudreau era entrato in contatto con Keith Schiller, a lungo guardia del corpo di Trump e oggi consulente per la sicurezza. Ma sembra che non abbia più avuto rapporti con lui dopo un incontro a Miami con i rappresentanti dell’opposizione venezuelana, a cui avevano partecipato entrambi circa un anno fa, su come garantire la sicurezza di Guaidó. E Schiller, a quanto dice, non sapeva nulla del progetto.
L’operazione Gideon sembra la cronaca di un disastro annunciato. Indipendentemente dal fatto che Washington l’abbia appoggiata o meno, o ne sia stata informata in anticipo, l’amministrazione Trump ha indubbiamente contribuito a creare l’atmosfera che ha reso possibile un’iniziativa così strampalata. Per quanto riguarda l’affermazione di Pompeo, cioè che se gli Stati Uniti fossero stati coinvolti il risultato sarebbe stato migliore, il fallimento dell’invasione della baia dei Porci dimostra il contrario.

Come anche altre operazioni segrete andate male, dai mercenari mandati dal segretario di stato Henry Kissinger e dalla Cia in Angola negli anni settanta alle bravate di qualche anno dopo guidate dal predecessore di Goudreau, l’ex eroe di guerra delle forze speciali James Gordon “Bo” Gritz, che condusse assurdi raid nel Laos comunista per cercare soldati statunitensi dispersi che si presumeva fossero tenuti nel paese come schiavi. Non c’era nessun disperso, il Laos è ancora comunista e nel 1992 Bo Gritz ha partecipato alle elezioni presidenziali con lo slogan “God, guns and Gritz”, Dio, fucili e Gritz. La storia si ripete sempre come farsa, ma gli aspetti farseschi dell’operazione Gideon non rendono meno tragica né le morti provocate dalla tentata invasione né il lento collasso del Venezuela. Dal 2015, quando il calo del prezzo del petrolio ha finito di distruggere un’economia già in crisi, circa cinque milioni di persone hanno lasciato il paese. Nonostante le spacconate e le sanzioni degli Stati Uniti, i problemi economici del Venezuela, come la mancanza di democrazia nel paese, sono sempre lì. E l’era trumpiana della baia dei Porcellini non renderà più facile risolverli.

Nel frattempo la crisi economica e umanitaria è sempre drammatica: secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2019 il PIL venezuelano si è contratto del 35 per cento e alla fine del 2020 il numero degli emigrati venezuelani potrebbe arrivare a sei milioni, quasi il 20 per cento della popolazione.
I numeri ufficiali sull’epidemia di coronavirus – che al 31 maggio stimavano 1.500 casi e 14 morti – in Venezuela sono molto bassi e poco realistici, come hanno denunciato organizzazioni dei diritti umani e alcuni medici e giornalisti venezuelani. È probabile che il contagio sia molto più diffuso a causa della difficoltà di rispettare la misure di isolamento e del collasso del sistema sanitario del paese, con molti ospedali che mancano di acqua corrente, sapone, misure protettive e personale sanitario. Già nel 2019 il Global Health Security Index aveva posizionato il Venezuela al 180esimo posto su 195 per la capacità di contenere il diffondersi di un’epidemia.

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Al collasso sembra anche un modello politico che, a sette anni dalla morte di Hugo Chávez, una stagione di rivoluzione sociopolitica che progressivamente sfocia verso la dittatura.
Il clima di crisi perpetua che non conosce tregua da ormai cinque anni ha ormai instradato sul viale del tramonto il “sentiero luminoso” del chavismo. Non possiamo sapere come si sarebbe comportato Chávez dopo la caduta del prezzo del petrolio del 2014 o dopo la vittoria dell’opposizione alle elezioni legislative del 2015, ma sappiamo che il governo di Maduro ha portato il paese al collasso istituzionale, economico e sociale.
Non va però commesso l’errore di considerarlo finito: in più occasioni in passato la sua fine è stata prevista erroneamente, ma anche in questo caso lo scenario più probabile è che Maduro rimanga al potere. Maduro è la metastasi della revolución bolivariana ma l’autogol della “baia dei Porcellini” rischia di essere una boccata di ossigeno per il regime.