Nessun maggior dolore, che ricordarsi del tempo felice nella miseria
Dante – Inferno, V Canto – vv. 121-123
Si è con ogni probabilità concluso il primo decennio della storia moderna del calcio durante il quale nessuna squadra italiana è riuscita a trionfare in una competizione europea per club. Nonostante le due finali di Champions League giocate, e perse, dalla Juventus, il calcio nostrano sta vivendo un periodo di crisi. La fotografia più eloquente di questo decennio grigio per i colori azzurri è la sciagurata notte di San Siro del 13 novembre 2017, quando la Nazionale di Giampiero Ventura è uscita con le ossa rotte dal drammatico spareggio con la Svezia, non riuscendo a qualificarsi per il Mondiale di Russia 2018.
Un evento accaduto solo una volta nella storia, nel lontano 1958.
C’è stato, però, un periodo durante il quale il nostro campionato era considerato “il più bello del mondo”. Le nostre squadre potevano vantare campioni italiani tra le loro fila: Baggio già incantava, Totti e Del Piero erano dei fuoriclasse in erba, Maldini e Baresi componevano una delle linee difensive più forti della storia del calcio. Gli stranieri venivano in Italia per vincere il campionato più difficile dell’epoca e per affermarsi a livello internazionale. Negli stadi si potevano ammirare alcuni dei giocatori che stavano scrivendo la storia del calcio: Maradona, Van Basten, Batistuta, Zidane, Ronaldo. Trent’anni fa, ogni domenica, le stelle del calcio mondiale duellavano a colpi di classe in Serie A. Proprio alla vigilia delle Notti Magiche di Italia ’90, gli stessi tifosi che avrebbero urlato per ogni gol di Totò Schillaci, vedevano le loro squadre dominare in campo europeo. La stagione 1989/1990 è quella di un record alquanto particolare: tutte le competizioni UEFA dell’epoca venivano vinte da una squadra italiana.
Mitropa Cup, il primo trofeo internazionale del Bari
La Mitropa Cup nacque nel 1955 ereditando il lascito della Coppa dell’Europa Centrale, sospesa nel 1939 con lo scoppio della Seconda Guerra mondiale. Nelle edizioni post-belliche la Mitropa iniziò a perdere il proprio prestigio, in quanto a partecipare erano le squadre che in classifica si erano piazzate al di sotto di quelle qualificate per gli altri tornei Uefa. Per intenderci, quelle dal 1995 al 2008 avrebbero poi avuto accesso alla Coppa Intertoto. In queste edizioni le nazioni partecipanti erano l’Austria, la Cecoslovacchia, l’Italia, la Jugoslavia e l’Ungheria, con formule che variavano di anno in anno. Il definitivo declino della Coppa arrivò negli anni ’80. Infatti, con l’inizio del decennio venne sostanzialmente trasformata in una “Coppa dei Campioni di Serie B”, alla quale partecipavano le squadre vincitrici delle serie cadette.
L’edizione del 1990 è la quarantottesima e vede la partecipazione di due squadre italiane, che l’anno precedente hanno terminato la Serie B a pari punti. Per compensare il numero delle partecipanti vengono allora invitate due squadre jugoslave. La competizione si articola in due gironi da tre squadre ciascuno, che vengono giocati tra il 17 e il 19 maggio in diverse città della provincia barese: Altamura, Andria, Bari, Barletta e Bitonto. Il Girone A è vinto dal Bari, che supera con due netti 3 a 0 prima gli jugoslavi del Radnički Niš grazie ai gol di Monelli, Maiellaro e João Paulo, e poi gli ungheresi del Pécsi MSC con una doppietta di Scarafoni e una rete di Lupo. L’altro girone vede il Genoa, allenato dal compianto Franco Scoglio, prevalere sullo Slavia Praga e sugli jugoslavi del NK Osijek, grazie ad una miglior differenza reti. Alla prima giornata, la sfida tra il Grifone e i cecoslovacchi termina con un pareggio a reti inviolate. La vittoria dello Slavia alla seconda giornata mette i liguri nella posizione di dover vincere con almeno tre reti di scarto. La roboante vittoria per 6 a 0 rifilata al NK Osijek permette ai Rossoblù di accedere alla finale contro i padroni di casa.
Il 21 maggio 1990 si disputa la finalissima tutta italiana. Quel match dovrebbe rappresentare l’inaugurazione del nuovissimo Stadio San Nicola, progettato da Renzo Piano per i Mondiali di Italia ’90. Ma a causa di alcuni ritardi la finale di Mitropa Cup si trasforma nell’ultimo saluto al glorioso “Della Vittoria”, che ha ospitato i Galletti per 56 anni. «Eravamo a fine stagione, – ricorda Carlo Perrone in un’intervista – dopo aver conquistato una brillante salvezza in Serie A conclusa al nono posto. Il Genoa era un’ottima squadra, ma noi non contemplavamo l’idea di non vincere». La formazione schierata per la finale è piuttosto “sperimentale”, infatti, l’allenatore Gaetano Salvemini privilegia la freschezza della propria squadra, lasciando a riposo molti dei titolari sfiancati dall’estenuante torneo. A decidere la sfida, in favore dei pugliesi, è proprio Perrone all’11° minuto. L’apertura di Terracenere ed un errore della retroguardia rossoblù nel far scattare la trappola del fuorigioco permettono all’esterno biancorosso di lanciarsi in una delle sue proverbiali discese solitarie sulla fascia destra. Una volta entrato in area, a Perrone non resta che aspettare l’uscita del portiere ligure Braglia e scavalcarlo con un dolce pallonetto che si deposita in rete. È lo stesso Carlo Perrone, con la fascia di capitano al braccio, ad alzare il primo trofeo europeo della storia del Bari.
Oggi di quel trofeo, l’unico in campo internazionale della storia biancorossa, non si hanno più tracce. Una leggenda metropolitana narra che la coppa venisse utilizzata come secchio per raccogliere l’acqua piovana che cadeva negli uffici del San Nicola. Più probabile che, durante i giorni del fallimento, sia stata dispersa o portata via. Ma anche se la coppa non c’è più, nessuno potrà mai cancellare dalla memoria dei tifosi baresi il ricordo di quella Notte Magica.
Coppa delle Coppe, la rivincita della Sampdoria
Nata nel 1960-1961 sulla scia della crescente popolarità della Coppa Campioni, la Coppa delle Coppe era un torneo al quale partecipavano le vincenti delle coppe nazionali delle federazioni affiliate alla UEFA. Il format prevedeva la partecipazione di 32 squadre, che si affrontavano in quattro turni ad eliminazione diretta giocati in partite di andata e ritorno, per arrivare a giocarsi la finale in partita unica su campo neutro. Da settembre a maggio, i mercoledì di Coppa delle Coppe erano la gioia degli appassionati di pallone. Una maratona di incontri che iniziavano alle 14:30 e non terminavano prima delle 22:45, anche più tardi se la compagine italiana era impegnata in una trasferta portoghese, dove il calcio d’inizio era previsto per le 22:00 nostrane. Considerando che a partecipare alla manifestazione erano le vincitrici delle “coppe federali” – mentre non ebbero mai accesso i vincitori delle “coppe di lega” – non sorprende che nell’albo d’oro si siano iscritte 32 squadre diverse in 39 edizioni. Anche perché, a quel tempo, le Coppe nazionali avevano ben altro fascino e non era poi così raro veder trionfare una squadra non di primissima fascia.
Anche la Sampdoria ebbe il suo momento di gloria. Stagione 1989/1990, nel bel mezzo del Quadriennio Magico della società blucerchiata. Tutto era cominciato dieci anni prima, con l’acquisto del club da parte dell’imprenditore petrolifero Paolo Mantovani. «Un uomo concreto come un sognatore» – lo definisce Stefano Rissetto su Primo Canale – che in pochi anni porta la Samp dalla Serie B allo Scudetto. Un anno alla volta, il patron romano costruisce la sua creatura e nel 1985 riesce a conquistare il primo trofeo della storia blucerchiata, battendo nella doppia finale di Coppa Italia il Milan, allenato dal “Barone” Liedholm. Con la stagione 1986/1987 il presidente aggiunge l’ultimo importante tassello del mosaico blucerchiato, il tecnico Vujadin Boskov, che al suo arrivo a Genova dichiara: «Vialli e Mancini? Sono meglio di Hugo Sanchez e Butragueño».
La stagione 1988/1989 è quella in cui i liguri alzano definitivamente l’asticella. L’obiettivo dichiarato è la Coppa delle Coppe. E infatti, il 10 maggio 1989, si trovano ad affrontare il Barcellona di Cruijff al Wankdorfstadion di Berna – lo stadio che fu teatro della celebre finale dei Mondiali 1954 tra Germania ed Ungheria. I blaugrana si impongono per 2 a 0, grazie a Julio Salinas, in rete dopo appena 4’ minuti di gioco, e a Lopez Rekarte, con un gol in contropiede nel finale che chiude definitivamente la pratica. Per i giocatori doriani la delusione è cocente, ma proprio in quell’occasione l’intera squadra fa una promessa al presidente Mantovani: «Non ce ne andremo da Genova finché non avremo vinto qualcosa di importante». La Grande Samp è appena nata. A rendere meno amara la sconfitta è la seconda vittoria consecutiva – la terza in quattro anni – della Coppa Italia, ai danni del Napoli di Maradona fresco vincitore della Coppa Uefa contro lo Stoccarda. Il gol di Renica premia i partenopei nella gara d’andata, ma al ritorno, giocato al “Giovanni Zini” di Cremona per via dell’indisponibilità del Ferraris a causa dei lavori per i Mondiali del 1990, la Banda Boskov s’impone per 4 a 0, guadagnandosi nuovamente la partecipazione alla Coppa delle Coppe.
Avendo ormai acquisito rispetto internazionale con il cammino della stagione precedente, la Sampdoria affronta la nuova sfida con una maggior consapevolezza nei propri mezzi, superando al primo turno i norvegesi del SK Brann con un agile 3 a 0 complessivo. Gli ottavi di finale mettono di fronte ai liguri un avversario ben più ostico, il Borussia Dortmund. L’andata al Westfalen Stadion termina 1 a 1, con il “cobra” Wegmann a portare in vantaggio i gialloneri e Mancini a riagguantare il pareggio nel finale. Al ritorno è Vialli a siglare una doppietta e a garantire ai blucerchiati l’accesso ai quarti. Mentre la Samp si sbarazza facilmente degli svizzeri del Grasshoppers (2-0 a Genova e 2-1 a Zurigo), l’Anderlecht elimina i campioni in carica del Barcellona, diventando così una seria candidata alla vittoria finale. La doppia sfida in semifinale contro il Monaco è molto più ostica. La squadra del Principato schiera, oltre al futuro campione del mondo Petit, la coppia d’attacco composta da George Weah e dall’argentino Ramon Diaz, che ha appena conquistato lo “Scudetto dei Record” con l’Inter. Ma «quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». La gara di andata al “Louis II” si rivela spettacolare: la doppietta di Vialli si inserisce tra il vantaggio di Weah ed il pareggio di Diaz; al ritorno in Italia i gol di Vierchwod e Lombardo chiudono il discorso qualificazione già nel primo quarto d’ora. La Sampdoria giunge così all’atto conclusivo da imbattuta e con Vialli a giocarsi il titolo di capocannoniere.
Il 9 maggio 1990 allo Stadio “Ullevi” di Göteborg, come da pronostico, va in scena la sfida contro i biancomalva dell’Anderlecht, una squadra che ha una certa confidenza con la competizione, avendo giocato tre finali consecutive tra il 1976 e il 1978. Il giorno della finale sia Boskov che De Mos, l’allenatore dei Mauves, mettono in campo due schieramenti molto prudenti, ma è la Sampdoria, fin da subito, a fare la partita e ad avere le occasioni migliori nel corso dei tempi regolamentari. La bravura del portiere De Wilde, l’imprecisione dei giocatori doriani e un po’ di sfortuna fanno sì che i 90 minuti di gioco terminino sullo 0 a 0. Ma a cavallo dei due tempi supplementari è Vialli, fino a quel momento un po’ assente dalla gara, a salire in cattedra. Al 105’ una bella azione corale, iniziata da Lombardo sulla destra, porta alla conclusione di Salsano dal lato opposto dell’area. Il mancino dell’esterno italiano viene sporcato dal portiere belga che riesce a deviarlo, ma è incapace di trattenere il pallone che, dopo essere rimbalzato sul palo, gli torna tra le mani. Vialli, appostato come un rapace, glielo scippa e a due passi dalla linea di porta deve solo spingerlo in rete. Il vantaggio è numerico, ma anche e soprattutto psicologico. A quel punto il muro dell’Anderlecht va in pezzi: al 108’ Vialli trova nuovamente la via del gol, anticipando di testa il portiere su assist dalla destra di Mancini. Il dado è tratto, la Sampdoria è campione.
I 7000 tifosi blucerchiati presenti a Götenborg non hanno mai smesso di cantare per tutta la gara e vanno letteralmente in delirio per il primo trofeo internazionale della loro storia, vinto con una formazione titolare composta per 10/11 da italiani. L’unico straniero è Srečko Katanec, jugoslavo come Boskov. Luca Pellegrini, che di quella squadra è il capitano, in un’intervista a Il Secolo XIX ricorda il gesto del presidente Mantovani che, appena atterrati a Genova alle cinque del mattino, «con i tifosi fuori ad aspettarci, mi tocca la spalla e mi dice “esci tu per primo dall’aereo con la Coppa”. C’era una storia dietro… quando vincemmo con il Napoli la terza Coppa Italia il capitano ero io, ma lui mi chiese il favore di far alzare il trofeo a Vierchowod che aveva appena rifiutato di andare alla Juventus. Non se ne era dimenticato. Per questo non fu il Presidente il primo a sbucare dall’aereo con la Coppa, ma io».
Coppa UEFA, la prima finale tutta italiana
Vierchowod alla fine alla Juventus ci andrà, e di coppa in bianconero (anzi, in gialloblu) ne alzerà una ancora più prestigiosa nel cielo di Roma in una sera di primavera del 1996. Sei anni prima, però, a tenere banco in casa Juve è un’altra finale – la prima tutta italiana nella storia delle competizioni europee – e un altro giocatore. E che giocatore. Ironia della sorte, si tratta proprio del gioiello della squadra che i torinesi stanno per affrontare nel doppio confronto che vale un posto nell’albo d’oro della coppa più giovane di tutte: quel Roberto Baggio che Firenze ha prima aspettato, poi coccolato e che finalmente si sta godendo in tutto il suo splendore. «Non è un miraggio / Roberto Baggio» canta la Fiesole in quegli anni. E in effetti, ancora lungi dall’essere etichettato come “pulcino bagnato”, il 23enne di Caldogno si sta finalmente esprimendo ad alti livelli dopo un avvio segnato dagli infortuni.
Quando Fiorentina e Juventus guadagnano l’accesso alla finale di Coppa Uefa la rivalità tra le due tifoserie – talmente unilateralmente viscerale da diventare con gli anni sempre più reciproca – è forte ma non ancora incendiaria. Lo diventerà di lì a poco per colpa, o merito, insomma per causa di quel numero 10 col codino. Ma andiamo per gradi. Quell’anno le italiane ai nastri di partenza sono quattro: insieme a bianconeri e viola ci sono i campioni in carica del Napoli e la sorprendente Atalanta di Caniggia, Evair e Strömberg, allenata da Emiliano Mondonico. Mentre quest’ultima crolla già ai trentaduesimi di finale sotto i colpi dello Spartak Mosca, il Napoli riesce a difendere il titolo fino agli ottavi di finale, dove il Werder Brema impartisce a Maradona e compagni una clamorosa lezione. A quel punto in gioco sono rimaste tre tedesche, due belghe, una francese e – appunto – due italiane.
Alla Fiorentina – che fin lì non ha brillato, eliminando l’Atletico Madrid ai rigori, il Sochaux grazie alla regola dei goal in trasferta e la Dinamo Kiev segnando una sola rete in 180 minuti – tocca l’unica transalpina rimasta, l’Auxerre di Enzo Scifo. La Juventus, che ha piegato sul suo cammino i polacchi del Górnik Zabrze (trasferta tristemente nota per la morte di Gaetano Scirea), i francesi del Psg e i tedeschi orientali del Karl-Marx-Stadt, pesca invece l’Amburgo. I viola s’impongono con relativa tranquillità segnando un goal per gara, mentre la Juve si complica un po’ la vita facendosi rimontare nel ritorno a Torino. Risultato: doppio Italia-Germania in semifinale a due mesi dal mondiale in cui nessuno scommettitore si sognerebbe mai di giocarsi una finale diversa. Da una parte i viola contro il Werder Brema giustiziere del Napoli, dall’altra i bianconeri contro il Colonia di Pierre Littbarski.
Per gli italiani sarebbe il primo euroderby di sempre in finale, i tedeschi hanno il precedente di dieci anni prima nella stessa competizione, quando Borussia Mönchengladbach ed Eintracht Francoforte si giocarono il trofeo. L’unico altro caso risale alla prima edizione della Coppa: era il 1972 e a contendersi la prima discendente della Coppa delle Fiere erano stati il Tottenham e il Wolverhampton. Altri tempi: nel 1990 le inglesi stanno scontando il quinto e ultimo anno di squalifica dalle competizioni continentali dopo la tragedia dell’Heysel e l’Europa è terreno di caccia per le italiane. La prima a scendere in campo è la Fiorentina, costretta da inizio anno a vagare tra gli stadi del Centro Italia a causa dei lavori di ristrutturazione cui è sottoposto il Franchi in vista dei Mondiali. Finora in Europa ha portato bene il Renato Curi di Perugia ed è qui che i viola sono chiamati a difendere l’1-1 di Brema.
I bianconeri guidati da Dino Zoff invece devono proteggere il traballante 3-2 di Torino nella bolgia del Müngersdorfer Stadion di Colonia. A entrambe basterà uno scialbo zero a zero al ritorno: l’impresa è compiuta, ora anche l’Italia può godersi uno scontro fratricida in finale. A dominare le immancabili polemiche della vigilia sono naturalmente le voci che riguardano Baggio: nonostante i Pontello continuino a negare, sono in molti a dare già per conclusa la trattativa per portarlo alla corte dell’Avvocato. Un rincorrersi di conferme e smentite che finirà per danneggiare in primis lo stesso fantasista, apparso incolore in entrambe le partite. Sì, perché quella è ancora la Uefa delle finali doppie (lo sarà fino al 1997) e, mentre l’andata si gioca regolarmente al comunale di Torino, il ritorno (in cui i viola sono chiamati a ribaltare un pesante 3-1), si svolge al Partenio di Avellino.
Il talismano-Curi è infatti sotto squalifica Uefa causa intemperanze nella partita di ritorno contro il Werder Brema e la scelta della società toscana cade inspiegabilmente su un feudo bianconero come il capoluogo irpino. Una decisione difficile da digerire per i tifosi viola, già sul piede di guerra con la società per il già citato affaire Baggio. La gara del Partenio è un inno al nervosismo: poche palle giocabili, tanti falli, gioco spezzettato. La partita che Zoff e la Juve speravano: alla fine sarà un altro 0-0 (il quarto in dodici partite per la Fiorentina, capace di siglare in tutto il torneo la miseria di sette reti) e la Coppa prenderà la strada di Torino. Zoff diventa il primo ad alzare il trofeo sia da giocatore sia da allenatore, i viola si consolano accedendo al Pantheon delle squadre capaci di raggiungere la finale in tutte e tre le competizioni Uefa e Baggio…prenderà, come noto, la stessa strada della Coppa.
Il giorno dopo la finale, infatti, con un tempismo degno dei migliori noir, i Pontello annunciano la cessione che era nell’aria da mesi. Nelle settimane successive si moltiplicheranno gli arresti e le denunce tra i tifosi, che arriveranno a cingere d’assedio la sede della società e l’abitazione della famiglia proprietaria. Nemmeno il ritiro della Nazionale nella vicina Coverciano sarà risparmiato, tanto che i ragazzi di Azeglio Vicini saranno costretti a trasferirsi a Marino, alle porte di Roma. Complici le noie muscolari di Vialli, Baggio in quel mondiale esploderà definitivamente, al fianco di un Totò Schillaci in stato di grazia. Peccato che a Firenze quel suo goal contro la Cecoslovacchia, tuttora uno dei più belli mai segnati da un italiano in una Coppa del Mondo, non se lo godrà nessuno. Il 3 luglio mezza città tiferà Argentina e al fischio finale non mancheranno i caroselli di auto.
Coppa dei Campioni, il Milan si “consola” col bis
Tra la partita di Avellino del 16 maggio e la gara inaugurale dei Mondiali italiani (prevista per l’8 giugno a San Siro) c’è appena il tempo per un’ultima finale, la più prestigiosa, quella in grado di consacrare definitivamente l’Italia come regina d’Europa. La Serie A è finita da quasi un mese con la vittoria del Napoli al fotofinish quando, il 23 maggio, il Milan di Sacchi scende in campo al Prater di Vienna per difendere la coppa delle grandi orecchie conquistata dodici mesi prima a Barcellona schiantando la Steaua Bucarest. Stavolta di fronte ai rossoneri ci sono i portoghesi del Benfica, alla settima finale nella storia della competizione. Peccato che le ultime quattro li abbiano visti sconfitti, tanto che da qualche anno s’inizia a parlare di una strana maledizione lanciata dal tecnico ungherese Bela Guttman, tuttora l’ultimo allenatore delle Aquile capace di alzare un trofeo continentale.
A inizio anno le milanesi in corsa per la coppa più prestigiosa erano due: al Milan campione in carica s’era aggiunta la dominatrice incontrastata del campionato precedente, quell’Inter dei record capace di vincere 26 delle 34 partite segnando 67 goal e subendone appena 19. Inter che però dalla Coppa uscirà già a settembre per mano del Malmö. Ai rossoneri, invece, dopo essersi sbarazzati agevolmente dei finlandesi dell’Hjk, agli ottavi tocca subito il Real Madrid di Butragueño. Una squadra dal dente avvelenato per la vera e propria lezione di calcio subita l’anno precedente in semifinale. Stavolta il percorso degli uomini di Sacchi si rivela decisamente più faticoso: dopo un’andata senza storia (2-0 già al 14esimo), il ritorno al Bernabéu si trasforma in una strenua resistenza agli attacchi delle merengues, galvanizzate dal goal segnato dal Buitre allo scadere del primo tempo. Che però non basterà.
Ai quarti i campioni d’Europa pescano facile, o almeno così credono: i belgi del Malines, vincitori della Coppa delle Coppe due anni prima, si rivelano un osso duro e – con un doppio pareggio a reti inviolate – impongono ai rossoneri il supplizio dei tempi supplementari: ci pensaranno i due Marco, Van Basten e Simone, rispettivamente al 105° e al 116°, a fissare il risultato su un 2-0 che racconta solo in parte la sofferenza di quei 210 minuti di attacchi frustrati. A caccia della coppa più ambita sono rimaste in quattro e ce n’è per tutti i gusti: una squadra risorta appena quattro anni prima dalle proprie ceneri e con un futuro radioso di fronte a sé (il Milan), un’altra che sogna di compiere lo stesso percorso e per un po’ s’illuderà di riuscirci (l’Olympique Marsiglia), una nobile che sta lottando per non decadere (il Bayern Monaco) e un’altra che sta lottando contro i propri fantasmi (il Benfica, appunto).
Tra il Milan e la finale ci sono i bavaresi. A San Siro Van Basten segna il rigore che permette di volare a Monaco forti dell’1-0, ma Strunz (che anni dopo in Italia diventerà famoso per ben altre ragioni) due settimane dopo riporta tutto in parità. Servono di nuovo i supplementari, dove Stefano Borgonovo – che fin lì ha segnato solo alla prima di campionato nella vittoriosa trasferta di Cesena – strappa il biglietto per Vienna, rendendo vano il 2-1 di McInally. Anche nell’altra semifinale risulterà decisiva la regola del goal in trasferta: l’OM di Tapie è costretto a rimandare l’appuntamento con la storia e in finale vola un Benfica che con la storia invece – come abbiamo visto – ha più di un conto in sospeso. È il 18 aprile e il Milan è, nell’ordine, finalista in Coppa Campioni, primo in campionato a pari merito col Napoli e finalista in Coppa Italia con la Juve (l’andata, giocata a Torino, è finita 0-0).
Poi accade l’impensabile: il 22 aprile Van Basten e compagni si fanno rimontare a Verona – da allora, visto l’analogo precedente di 17 anni prima, “fatale” per tutti i tifosi milanisti – lasciando di fatto lo scudetto agli uomini di Bigon, vittoriosi a Bologna, e tre giorni dopo una rete di Galia regala alla Juve la sua ottava Coppa Italia. In 72 ore il Milan passa da una potenziale storica tripletta (triplete è ancora un termine sconosciuto) alla disperazione. Il poker rifilato al Bari all’ultima di campionato serve solo ad aggiustare le statistiche di fine anno perché il Napoli, a cui basta un pareggio, non fallisce il match point casalingo con la Lazio. Dalla partita col Bari alla finale di Vienna ci sono 24 giorni: abbastanza se si vogliono recuperare le energie, troppi se passati a farsi divorare dai rimorsi. Verona ha lasciato strascichi pesanti sul morale della truppa: riuscirà Arrighe – ci si chiede – a dissiparli?
Al Prater c’è aria di estate: al fischio finale i tanti nazionali in campo raggiungeranno i rispettivi ritiri per unirsi ai compagni già in clima-Mondiale. Il Milan scende in campo con lo stesso undici di dodici mesi prima a Barcellona, a eccezione dello squalificato Donadoni sostituito da Evani. Il Benfica, sulla cui panchina ad agosto è tornato a sedersi – dopo alterne fortune in Italia – Sven-Göran Eriksson, è ben messo in campo e chiude gli spazi agli uomini di Sacchi. A una ventina di minuti dalla fine ci pensa Rijkaard, splendidamente imbeccato dal connazionale col 9 sulle spalle, a infilzare Silvino. Il remake della finale del 1963 termina così con lo stesso epilogo e per i portoghesi le finali consecutive senza alzare un trofeo raggiungono l’inquietante cifra di cinque. Per rivivere l’emozione del padre, che quella coppa alzò proprio nel ’63, invece, Paolo Maldini dovrà ancora aspettare qualche anno.