Anche se il nostro maggio / Ha fatto a meno del vostro coraggio / Se la paura di guardare / Vi ha fatto chinare il mento / Se il fuoco ha risparmiato / Le vostre Millecento /
Anche se voi vi credete assolti / Siete lo stesso coinvolti
Canzone del Maggio – Fabrizio De André
Maggio 2020 verrà ricordato a lungo – forse per sempre – come il mese della fase 2 della “Fase Due”, dello stadio conclusivo delle restrizioni dettate dalla pandemia nel nostro Paese e che coincide, dopo tre mesi di quarantena, inevitabilmente con la riapertura dei locali, con le prime birre, qualche amico rivisto dopo mesi, la voglia sfrenate di fare, di muoversi. Un maggio caldo.
Così anche musicalmente maggio è il mese delle fiamme e del fuoco della protesta.
Il “Maggio ’68” o “Maggio Francese” ha rappresentato il più grande movimento di contestazione sociale, politica e culturale del XX secolo in Francia, assumendo dei tratti di una rivoluzione. La sua nascita coincide con lo sviluppo di altri movimenti libertari in tutto il mondo e segna un punto di rottura fondamentale nella storia della società francese, tradizionalmente organizzata attorno all’autorità dello Stato, alla famiglia e alla Chiesa. Partito dagli studenti che reclamavano una liberalizzazione dei costumi, il moto di protesta conquista rapidamente altri strati della società, e in particolare gli operai, che per due mesi mettono in atto la più grande ondata di scioperi della storia francese.
Questa nuova ondata porta grande fermento e stimolo, soprattutto negli ambienti artistici, della musica e del cinema.
In questo secondo campo, si impone un giovane movimento cinematografico (La “nouvelle vague”, una “nuova ondata”, appunto) nato solo nove anni prima e che si presentò al Festival di Cannes – accolti generalmente con grande attenzione e anche con entusiasmo per la loro novità – con i quattrocento colpi di Francois Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais. Un nuovo corso, questo che si sviluppa raccogliendo indicazioni precedenti (Il cinema d’autore europeo degli anni Cinquanta e Sessanta, ma soprattutto il Neorealismo Italiano dal quale la Nouvelle Vogue non ha mai negato di trarre ispirazione) non stabilisce cesure nette tra il prima e il dopo, innesta processi di ampliamento non riconducibili a singole opere.
Si creano subito le opposte fazioni dei fautori e dei detrattori: i primi sottolineano l’aria diversa che arriva al cinema francese da quelle storie attuali, dal quadro di inquietudine generazionale che emerge, dalla rottura attuata sul piano dello stile e del modo di raccontare; i secondi battono il tasto dell’estraneità ai fatti storici, del ripiegamento intimistico, del compiaciuto estetismo, della abilità culturale e di un mero “clima”, magari intenso, ma non di più, forse di una più semplice aria del tempo. Una sorta di nebulosa.
Sia come sia, La nouvelle Vogue inizia a raccontare, imbracciando una macchina da 35 mm, una Francia in piena crisi e sul punto di esplodere. Lo fa magnificamente Godard, il più radicale dei registi esordienti all’inizio degli anni Sessanta, realizzando Un film comme les autres, che impiega attori non professionisti, tre studenti dell’Università di Parigi a Nanterre e due operai dello stabilimento della Renault;
La musica non si fece attendere, artisti come Dominique Grange, Léo Ferrè, Jacques Brell e Georges Brassens raccontarono il desiderio di ribellione di una generazione. Brassens – in particolar modo – era il poeta, l’autore irriverente, il portavoce degli ultimi, l’anarchico contraddittorio e l’anticlericale, il dissacratore di una società iniqua e barricata dietro i suoi cliché, armato solo di voce e chitarra, sempre dieci passi avanti rispetto ai tempi.
Brassens è stato l’artista che ha portato la letteratura nella musica, o meglio che ha elevato la canzone al rango poetico. La parola chiave, teniamolo bene a mente, è questa: poesia. Ci sono i versi e le rime, epicentro di ogni brano, e in più una chitarra, un palco, un pubblico seduto che ascolta, prima nei cabaret di Montmartre, poi di tutta Parigi, infine nei teatri prestigiosi. “La canzone è una poesia alla portata di tutte le tasche”, soleva dire mettendo d’accordo in una sola espressione tutte le sfaccettature del suo pensiero.
E proprio Brassens è il collegamento che ci porta direttamente in Italia.
Il cinema Italiano in questo periodo storico vive meno il fenomeno del rinnovamento artistico e registico – a differenza della Francia ma del mondo dello spettacolo in generale – distaccandosi poco o per nulla dalla generazioni dei padri, ma anzi se ne proclamano gli eredi e i continuatori, anche se sottolineano spesso la necessità del superamento.
La verità è che in Italia la “nuova ondata” c’è già stata, tra il 1945-1946 e il 1952-1953, ovvero tre o quattro anni prima di quella inglese (il Free cinema), sei o sette prima della Nouvelle Vague parigina, otto o nove prima del cinema novo brasiliano o della nova Nová vlna praghese.
Per meglio focalizzare il 1968 della musica in Italia è necessario fare un passo indietro. Sanremo 1967: il suicidio del cantautore Luigi Tenco (obbligato a cambiare titolo e testo del brano per non incorrere nella censura) in gara con il brano Ciao, amore, ciao, produce l’effetto di scardinare un’epoca, grida rabbia, frustrazione, delusione. Urla “basta” al tradizionalismo del Festival e preannuncia l’imminente rivoluzione culturale e musicale. E caratterizzerà non poco la musica degli anni successivi.
Quello di Tenco non fu’ comunque l’unico esempio di una tensione musicale palpabile che in seguito andrà ad acquisire una valenza politica. Basti pensare a Fabrizio De André – e qui il collegamento con i moti Francesi e alle sue radici musicali e poetiche. Tra queste, quelle portanti sono sicuramente Georges Brassens e Leonard Cohen – sino a quel momento confinato ai margini del business discografico per via delle sue battaglie contro il moralismo borghese, che alza orgogliosamente la testa e incide l’album Tutti morimmo a stento, ispirandosi alle poesie di François Villon; quindi, compone i versi di Senza orario senza bandiera, entrando “rivoluzionariamente” in contatto con il rock dei New Trolls. De André riannoderà i fili del ’68 cinque anni più tardi con Storia di un impiegato, tratteggiando la solitaria e disillusa ribellione di un uomo avvinto dal maggio studentesco francese.
“Chi va dicendo in giro
Che odio il mio lavoro
Non sa con quanto amore
Mi dedico al tritolo
È quasi indipendente
Ancora poche ore
Poi gli darò la voce
Il detonatore
Il mio Pinocchio fragile
Parente artigianale
Di ordigni costruiti
Su scala industriale
Di me non farà mai
Un cavaliere del lavoro
Io sono d’un’altra razza
Son bombarolo“
Fabrizio De Andrè – Il Bombarolo
Nel Regno Unito invece, alla fine dell’ agosto del 1968, i Rolling Stones pubblicano il disco Beggars Banquet che contiene il singolo Street Fighting Man, definita la canzone più politica degli Stones, pezzo molto forte dell’album, ispirato agli scontri studenteschi del maggio ’68 e ai disordini di strada causati dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam che all’epoca impazzavano un po’ dappertutto. Da subito definito Inno rivoluzionario, una vera e propria chiamata alla rivoluzione per le strade era forse più un freddo resoconto dei fatti seguita dall’amara constatazione che – almeno in Inghilterra – la lotta era inutile:
Because in sleepy London Town
There’s just no place for Street Fighting Man! No!
La canzone venne pubblicata su singolo negli Stati Uniti all’epoca della Convention Democratica di Chicago, venendo immediatamente bandita dalle radio americane per i contenuti sovversivi, e ritirata poco dopo dal mercato a causa dell’illustrazione di copertina del 45 giri che nella prima versione raffigurava scontri di piazza tra manifestanti e polizia.
Maggio si porterà per sempre dietro, oltre agli ultimi giorni di primavera e una gran voglia di libertà, anche i suoni dei movimenti di rivolta che hanno creato uno spartiacque sociale, politico ma soprattutto musicale. Da quel giorno in poi la musica non sarebbe stata più la stessa.