Come può uno scoglio arginare il mare? È questa la domanda che fino a qualche tempo fa non ci dava pace e risuonava ancora più forte nella nostra testa ogniqualvolta digitavamo senza successo il nome di Lucio Battisti sulle piattaforme di musica streaming.
Da qualche giorno, finalmente, questo interrogativo non ha più ragion d’essere, pur avendone sollevato un altro: come è stato possibile tenere lontano così a lungo dalle nuove generazioni un gigante della canzone italiana, un artista che è riuscito a combinare la bellezza dei testi con gli arrangiamenti musicali e la cantabilità delle canzoni?
La risposta è che dietro l’artista c’è l’uomo, una persona riservata, introversa, le cui scelte sono state spesso oggetto di critiche.
Nato a Poggio Bustone (Rieti) il 5 marzo 1943 – un giorno dopo un altro indimenticabile Lucio della canzone italiana – trascorre una giovinezza triste e isolata.
Decide di partire per Milano, a metà anni Sessanta, in cerca di fortuna, determinato a diventare qualcuno in una città che crescerà insieme a lui.
«Io so di avere qualche cosa dentro di me, ma non ho ancora trovato il modo di esprimerla; voglio […] qualcuno che mi dia una mano a decodificare quel turbinio di idee che ho nella testa».
Lo troverà in Giulio Rapetti, noto a tutti con il nome d’arte di Mogol, il taumaturgo in grado di plasmare un talento ancora grezzo.
Il ragazzo, come tanti, trova un riferimento artistico nei suoni d’oltremanica: ama i Beatles e i Rolling Stones e cerca nelle melodie anglosassoni la sua innocente evasione.
Comincia la sua carriera scrivendo musica per altri gruppi e cantanti. A lui si devono brani come Dolce di giorno, Vendo casa, Il Paradiso, Amor mio e molti altri. Si dedica alla composizione con precisione maniacale, attento a ogni singolo dettaglio, cercando di esprimere al meglio e di risaltare ogni tipo di sonorità.
Agli esordi ha un repertorio scarno, qualche pezzo, non un granché per la verità. Al primo incontro fa ascoltare a Mogol tre canzoni: «Sai venderti bene ma le canzoni fanno proprio schifo». Lucio non se la prende a male: «Sei il primo a dirmi le cose come stanno. Mi sta bene lavorare insieme».
Non ha una voce eccezionale, la Ricordi, la sua prima etichetta discografica, vorrebbe confinarlo alla chitarra: «Non sono molto entusiasta di fare il cantante, ma purtroppo nessuno può cantare le mie canzoni meglio di me». La critica non mancherà di sottolinearlo:
Il rapporto con il pubblico e con i media è uno dei grandi temi della vita di Battisti.
Da sempre grava sulla sua arte l’accusa di simpatizzare con gli ambienti di destra. Quei boschi di braccia tese scatenano ancora oggi infinite discussioni. Ciò che veramente non viene digerito in quegli anni di fervore politico, è la sua totale indifferenza verso la politica. Nelle piazze viene contestato dagli stessi giovani che, al sicuro nelle loro camere da letto, ne cantano a squarciagola le canzoni.
Quel poco che conosciamo – dall’amico Pietro Montalbetti, chitarrista dei Dik Dik – della vita privata di Lucio nei primi anni milanesi ci parla di un ragazzo amante dell’astrologia e della matematica, che vorrebbe una famiglia e una grande casa di campagna. Deve accontentarsi di lunghe passeggiate per campi e boschi di una Milano non ancora metropoli industriale.
Al termine delle gite è solito sdraiarsi in un prato e rimanere disteso, con uno stelo d’erba tra le labbra, «senza parlare ma aspirando profondamente, per sentire il profumo del campo e il rumore della natura, che amava».
Passa le sue ore a suonare la chitarra, sempre alla ricerca di nuove sonorità e creazioni, un perfezionista. Nella sua vita di artista non c’è posto per la politica, non c’è margine di fraintendimento, conta solo la musica, quello che trasmette: emozioni.
Si potrebbe rileggere l’intera vita di Lucio Battisti come il tentativo di anteporre a qualsiasi altra cosa le sue creazioni, come a voler nascondere dietro ai suoi capolavori la sua personalità schiva, timida e introversa. C’è grande distanza tra l’arte e l’uomo, il secondo è totalmente al servizio dell’atto compositivo. «Un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte».
La figura della rock star non fa per lui. La sua anima latina emerge nei successi che ci regala, decodificata dai testi che Mogol gli cuce addosso come un abito. Un sorriso senza età, gusti semplici, leggeri ma non banali. A un’epoca segnata dalla lotta di classe, Lucio contrappone una personalità spesso malinconica ma amante della vita. Uno spirito che corre leggero, tra cieli immensi, colline e praterie. Con l’arrivo del successo e della fama, si distanzia sempre più dalla realtà, allontanandosi completamente dalla scena pubblica: «Mi sono reso conto che fare l’ermetico crea meno problemi, mentre parlare un linguaggio semplice ti espone a maggiori possibilità di essere giudicato».
È gelosissimo della sua intimità e della sua privacy: ha un animo dolce e gentile ma fatica a parlare di sé anche con gli amici più stretti. Con i colleghi a volte invece non riesce a contenersi, si lascia andare in commenti non certo lusinghieri, arroganti: «Che c’entro io con Gaber? Io sono un rullo compressore, lui è un triciclo», oppure: «vado negli studi e canto la canzone seduto […] per non sudare, perché se io sudo vuol dire che i miei dischi devono valere di più di quelli di Venditti».
Con chi non lo conosce non dimostra un grande feeling: nella sua carriera non firma neanche un autografo, e quando i fan lo avvicinano finge di essere qualcun altro: «Non sono molto contento di quello che sto facendo, mi sono accorto che ho una certa difficoltà a stare in mezzo alla gente, quando per strada mi riconoscono invece che farmi piacere mi dà fastidio. Io non pensavo a questa vita e non mi piace».
Nel 1980 rompe la collaborazione con Mogol, un rapporto di amicizia mai del tutto decollato: «Passiamo ore insieme a lavorare. Ma la cosa che più mi fa male è che, nonostante tutto il tempo che trascorriamo insieme, non mi ha mai chiesto come sto, cosa penso».
Comincia un nuovo periodo sperimentale con Pasquale Panella, lontano dalle vette raggiunte nel periodo precedente. Muore prematuramente, a soli 55 anni in una giornata di inizio settembre del 1998, all’Ospedale San Paolo di Milano. Lascia in eredità un repertorio di successi ineguagliabili, sonorità sperimentali che hanno cambiato per sempre il panorama artistico contemporaneo.
Una vita al totale servizio della musica, un successo enorme e una grande carriera.
«L’idea di morire non mi spaventa, ma quello che temo è il fatto di non lasciare nessuna traccia del mio passaggio. Vorrei fare qualche cosa per cui essere ricordato per sempre. È il mio unico cruccio».
Sorvola sulle accuse della gente / a tutti i suoi retaggi indifferente / sorretto da un anelito d’amore.
Di vero amore.