La pratica del celibato, come quella continenza, è stata prassi non regolamentata nel clero fino al IV Concilio lateranense, quello indetto dalla grande mente politica di Innocenzo III nel 1215.
Permangono però controversie molto forti. Il periodo che segue il IV lateranense rimane egualmente confuso e il celibato, ancora fino al Concilio di Trento, non è del tutto definito. È un’aprioristica questione teologica oppure la teologia l’ha poi giustificata da un punto di vista intellettuale per questioni di ordine sociale? Non va dimenticato che per ordine sociale si intende, all’epoca, anche la possibilità che non avere eredi per gli uomini di Chiesa consenta la non spartizione dei patrimoni ecclesiastici stessi. Non un dettaglio da poco.
Qualche mese fa la questione, sopita per secoli, è (ri)esplosa perché si è pensato che ci fossero elementi di dibattito, all’interno della cattolicità, per “aprirsi” alla possibilità sacerdotale di contrarre matrimonio in luoghi della terra dove la carenza dell’ordinazione rischiava di compromettere l’esistenza stessa del clero. In realtà però, nonostante le apparenze, le posizioni di Benedetto e Francesco sull’argomento non sono dissimili: entrambi hanno ribadito un atteggiamento conservativo nei confronti del celibato e non sembra, al momento, che il clero cattolico possa conformarsi a quello luterano su tale questione.
Vedo, non vedo. Voglio, non posso
La solitudine degli uomini di Dio è da sempre materia sensibile per il Cinema. In quanto arte visiva, il cinema non ha difficoltà a giostrarsi sulla logica del “mancato”: ciò che mi è idealmente precluso, anche se non è immagine diretta, desta nella mente un interesse ulteriore, quasi “altro”. Essendo peraltro esso un medium, è già di per di per sé – se così si può dire – “antierotico”, come se ci avvicinasse e ci allontanasse insieme dall’esperienza sensibile.
Uccelli di rovo (The thorn of birds, 1983), che non è un film ma una serie tv in quattro puntate tratta da un vendutissimo romanzo, è il successo planetario per antonomasia su una storia d’amore tra un uomo di Chiesa e una giovane donna che ha visto crescere. Sulla reticenza dello statuario padre Ralph fa perno questo melodramma che inizia con un’ambientazione western degna di nota, dove però agli spazi del West si sostituiscono quelli sterminati dell’Australia. È una soap di bassa lega per cuori infranti e casalinghe che sognano di (ri)trovare un amore d’adolescenza nelle vesti di una talare? Non esattamente.
A rivederlo oggi, la sua semplicità non è del tutto banalità, forte di una sceneggiatura solida che si consente qualche apertura financo agli insegnamenti della mitologia (il mito di Ippolito in primis per questioni facilmente deducibili).
E va bene, vattene, scappa dal tuo Dio. Ma sono sicura che tornerai da me. Perché io ti amo più di lui, dice la bella Meggie al suo uomo in nero, tutto perduto nella fede. E lui? Ama realmente Dio più di lei? Oppure è innamorato di sé stesso e dalla sua ambizione di farsi Vescovo e addirittura un giorno Papa? Manterrà il voto di castità? É spontaneo domandarsi, in questa querelle, se abbia un reale senso rinunciare da parte sua all’amore umano e carnale in nome di un amore che altro non è che sovrastruttura ideale, dunque ombra, illusione.
Fatti i dovuti conti sui dialoghi non sempre illuminanti, vale la pena di recuperare la serie anche per un suo cast di rispetto, con tre star di Hollywood già nella maturità: Barbara Stanwyck – che riprende un granitico e cinico personaggio da ereditiera già esperito nel bellissimo Quaranta pistole di Samuel Fuller -, la (fu) bellissima Jean Simmons e Christopher Plummer nei panni di un Cardinale.
L’equilibrio sul quale giocare è sottile, eppure semplice. Forse le donne s’innamorano di ciò che non possono avere, oppure è la sfida di pretendere di sostituirsi a Dio a fare breccia nel loro ego. O ancora, queste sono interpretazioni banali di una psicologia da quattro denari che andrebbero degnamente messe da parte. Le donne s’innamorano degli uomini, e poiché gli uomini del clero sempre uomini sono, possono innamorarsi di loro esattamente come degli altri, né più né meno.
In Leon Morin, prete, un film felice e acerbo di un giovane Melville in cui si intravedono in filigrana le tendenze esistenzialiste che traslerà poi lui nel Polar, tratto da un romanzo di Beatrix Beck, la raffinatezza dei dialoghi assurge quasi al grado della teologia. Nella smorta provincia di Francia durante l’occupazione tedesca, una vedova col cuore a pezzi ricostruisce piano piano la sua vita con l’aiuto di un prete. Atea e marxista, comincia con l’idea di pungolarlo e farsene beffa, ma alla fine è sopraffatta dalla sua noncuranza, cultura, superiorità morale, persino affabilità. Se ne innamora. Lui è intransigente, nonostante la sua non sia una figura ieratica, ma anzi particolarmente affettiva e dunque in controtendenza rispetto alla freddezza tipica dei personaggi di Melville, di per sé ascetici fino ai limiti di una fredda asessualità; non innamorato, non farà comunque fatica a mantenere in vita il voto. In questo caso è anche una fotografia giocata su un forte contrasto chiaro-scuro a permeare la questione del suo significato di fondo: quasi un duello iconico e inveterato tra luce e ombra, amore carnale e spirituale.
Vi sono poi sketch più goliardici e all’italiana dove la profondità della teologia non ha alcuno spazio, primo fra tutti il celeberrimo tra Sordi e la Sandrelli in Quelle strane occasioni (1976): la confessione in ascensore è diventato un classico del nostro più disimpegnato cinema. In generale in Italia, vuoi per la presenza del Vaticano, vuoi per diversi decenni di potere incontrastato della Dc, il tema è sempre stato trattato marginalmente, per lo più anche con un certo garbo e tatto: ne sono testimonianza i due film Anna di Lattuada e La corruzione di Bolognini, una critica al materialismo e all’edonismo visto con gli occhi di un adolescente.
I film sull’argomento, pur non copiosi, non si limitano ai mancati amori etero: Il prete (1994) di Antonia Bird esamina, di contro, le pulsioni omosessuali di un uomo di chiesa anch’egli in bilico tra la carne e la vita che ha scelto: poco importa se in questo caso l’oggetto del desiderio rimanda a una dimensione omoerotica.
Una rilettura semplicistica di The Young Pope
La questione è stata poi ripresa anche dal nostro Sorrentino in The young pope la quale, per certi versi, è una serie tv che va letta anche come tentativo di farsi manifesto conservatore dei nostri tempi. Il sesso è sopravvalutato, dice il giovane Papa al suo scrittore preferito, dongiovanni che non sa resistere alle donne e che si vanta di averne conosciute copiose, in ogni loro aspetto carnale. Il giovane Belardo, appassionato suo lettore, sembra guardarlo dall’alto della sua santità e castità con la simpatia con la quale si guarda un peccatore che non sa dominare i propri sensi; d’altronde l’assenza stessa del Papa, che sceglie di sottrarsi ai fedeli per accrescere il mistero, sembra anch’essa giostrarsi su quella logica del “mancato” di cui si parlava a inizio articolo.
E ancora il giovane Papa si scaglia contro gli uomini del clero dicendo loro con tono grave che nessuno rispetta il voto di castità. Orfano di genitori e talvolta di Dio, l’introverso, narciso e reazionario vicario del signore imita invece il Cristo redentore, si astiene dalla carne e non sembra dolersene.
Quasi come se quella prima stagione della serie, intrisa di connotati teologici ma anche psicologici, fosse una pietra tombale sul terzo millennio che testimonia del calo della libido; Mentre in Vaticano si aprono ipotesi inaspettate di frange progressiste, i figli della generazione di Woodstock, annoiati da decenni di sessualità promiscua e imposta ovunque e da una carne facile, virtualizzata per di più – e questo è un altro tema che apre porte e portoni – andassero a riaffermare la sopita superiorità dell’amore spirituale su quello passionale.